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Occupy

Un anno fa nasceva il movimento Occupy Wall Street, ed io, quando passai da New York non volevo perdermi l’occasione di vedere questa sorta di occupazione permanente. Cercai quindi Zuccotti Park, immaginando una sorta di giardino in cui avrei trovati accampati i manifestanti.

Girai per circa due ore intorno a Wall Street, chiedendo informazioni ai passanti, che davvero poco mi sapevano dire a tal proposito. Trovai infine una minuscola piazza, circondata dai grattacieli, con non più di una ventina di persone. E mi domandai quanto questo movimento fosse stato forse eccessivamente pompato dai mass-media, quanto di ciò che avevo letto nei mesi prima fosse reale, quanto questa manifestazione avesse pesato nell’opinione pubblica degli americani.

E anche su quanto io sia sempre fuori tempo.

Immagini non montate/1

Harlem

h15.40 11/03/2012

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/Claustrofobico

Dopo una decina di giorni la sensazione di diffusa normalità lascia spazio ad una specie di pesantezza di fondo che accompagna le giornate. Si continua ad uscire ogni sera, per la cena nei ristoranti della città, si passeggia per le strade come sempre, ogni sera, ma la percezione è quella che si stratifica racconto dopo racconto dalle loro bocche e che ti fa venire solo voglia di respirare.
Il traffico è sempre così caotico, ed adesso so il motivo. I ragazzi girano tanto in macchina, per mancanza di alternative, ma anche perché è molto più semplice stare a contatto con la macchina di fianco e parlare con qualche ragazza conosciuta in un locale, che fermarsi a discutere sul viale principale. E’ una questione di mimetizzazione, per sfuggire al controllo della polizia religiosa.
In albergo provo a chiedere un decoder, giusto per guardare qualche canale internazionale. Ma mi dicono che le stanze che possono avere il decoder sono limitate, e sono tutte occupate. Sono quelle con il terrazzo, nel quale è più semplice nascondere la parabola. Occorrerebbe passare un cavo da li fino alla mia stanza, ma non ne vale la pena, dico io.
Una notte mi sono svegliato di soprassalto, come dopo un’incubo. Avevo sentito varie storie durante il giorno. Amin mi aveva raccontato della volta in cui fu arrestato per cinque giorni solo per aver fatto qualche foto durante una manifestazione. Poi, su twitter, aveva preso a seguirmi un giornale locale, e li si sa che tutti i giornali sono filogovernativi. Mi era presa una tale ansia che di notte ho acceso il pc e ho nascosto tutti i miei inutili post, pubblicati fin li.
Nel parlare con loro cercavo di capire quali fossero le loro sensazioni al sentire le voci dell’intensificarsi della situazione, ma mi rispondevano tranquilli, come se fossero talmente abituati a questa sensazione da non farci neanche più caso. Non era così, ovviamente, visto che l’idea di andare via da quel paese per qualcuno era già stata valutata e considerata come prossima.
Alla mia partenza, lunedì li prendevo in giro pensando alla birra che avrei bevuto la sera successiva, e vagheggiavamo sul modo per poterla infilare in valigia aggirando ogni controllo.
Dopo un po’ c’è ne è abbastanza da far venire voglia di anarchia, anche di quella, tutto sommato normale, di casa nostra.

p.s. Adesso sono davvero tornato a casa. Ed il titolo che ho dato a questi post, non era un del tutto casuale riferimento ad un libro visto spesso in biblioteca e mai letto. Era anche legato al fatto che l’ho davvero letto “Colazione da Tiffany”, uno di quei libri che trascuri sempre per quei preconcetti che ti porti dietro, fin quando incontri qualcuno che qualche mondo nuovo te lo fa scoprire. E poi, per non farmi mancare nulla, ho anche visto per la prima volta il film.
Ecco, quello me lo potevo evitare.

Il resto delle foto sono qui.

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/All’interno della moschea

Venerdì, il giorno delle elezioni al parlamento, sono entrato dentro una moschea. La più grande di Shiraz. Tra le file tra i votanti e le voci che si alzavano per la preghiera, dopo qualche esitazione iniziale, per via del fatto che in quelle situazioni non sai davvero come comportarti sono riuscito a scattare qualche foto nonostante che, come raccontato qualche giorno fa, la macchina fotografica era stata consegnata ai responsabili della sicurezza. A togliermi dall’esitazione è stato Said, il mio accompagnatore, che per primo ha preso il mio cellulare e ha scattato la prima foto. Poi mi sono fatto prendere la mano e, cercando di non essere troppo appariscente nei movimenti, qualcosa che racconta ciò che non mi sarei aspettato di vedere, sono riuscito a mostrarlo in queste foto, elaborate poi con qualche filtro di Hipstamatic per renderle più interessanti.

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Anche se la situazione era tranquilla, nulla si può ritenere realmente tale da quelle parti, come ho capito nei giorni trascorsi qui.

E non mi stupisco quindi che  oramai qualche servizio di reportage venga fatto in questo modo, soprattutto da zone di guerra, dove avere una fotocamera in mano ti rende bersaglio facilmente individuabile.

Roofoo Gary, i riparatori di tappeti


Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/Le elezioni farsi(a)

Le cose che ho imparato nel giorno delle elezioni al parlamento sulla (presunta) Repubblica Islamica Iraniana sono:

– che il Porcellum qui è applicato dal giorno della rivoluzione. Nessuno può essere candidato senza passare al vaglio di un “Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione”, altro che segreterie dei partiti;
– che qui esistono tanti partiti, ma sono tutti blu. Esiste un blu chiaro, un blu scuro, e mille altre varianti. Ma sempre di blu si tratta. Il rosso, il bianco, non esistono. Ed in questo non vedo nessuna attinenza con sinistra, destra, sinistra che viene accusata di essere destra e così via.
– Che qui non si imbrattano le città con affissioni abusive. Non ce ne è bisogno. Fino a qualche giorno fa non te ne rendevi neanche conto di essere a pochi giorni dalle elezioni. Poi, una sera, il traffico bloccato e dei ragazzi che sventolavano le bandiere per strada in corrispondenza di un comitato elettorale. Poi le immagini si sono moltiplicate, ed il candidato era spesso mostrato a braccetto con Khamenei, come se non fosse già abbastanza chiaro l’appoggio.
– Khamenei è ovunque, sui cartelloni, sui muri, più che ogni altro candidato.

– A votare va poca gente. Della gente che conosco tutti hanno boicottato le elezioni, ritenendole ovviamente inutili.
– Non si vota con la classica matita. Me lo sono fatto spiegare vedendo spesso questo cartellone oggi:

Con qualche specie di inchiostro imbrattano un dito con cui poi imbrattano la scheda elettorale. Non credo crei maggiori possibilità di brogli rispetto alle nostre matite, ma mi è sembrato quanto meno curioso, quasi fosse una sorta di schedatura all’uscita dal seggio.

– Sono riuscito ad entrare in una moschea, la più importante della città, proprio oggi. Mi hanno tenuto in consegna la macchina fotografica, naturalmente. Un luogo che mi ha lasciato senza fiato. Tappeti distesi nell’aria centrale con bambini che ci rotolavano su, donne che discutevano, qualcuno che pregava. E poi la moschea, su due ali di questa immensa piazza, all’interno un labirinto di specchi sulle pareti e sul soffitto. Una parete che separava la zona maschile da quella femminile, con le voci che si scontravano creando un effetto oscuro. Quando siamo usciti, con gli occhi rivolti verso l’interno e quindi i passi ripercorsi all’indietro, ho chiesto per cosa fosse la lunga fila che vedevo su un lato, con le telecamere fisse puntate su di essa. Gente che va a votare, mi hanno spiegato. Perché qui si vota anche all’interno della moschee sotto gli occhi degli imam, che talvolta passeggiano tra la folla. Potere temporale, potere spirituale, sono la stessa cosa, ovviamente.

Qualche foto, come questa, l’ho rubata comunque all’interno, con l’iPhone. Ma questa è un’altra storia.

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/Jafar

A pochi metri dall’ingresso dell’università un piccolo chiosco resta aperto a tutte le ore del giorno, e della notte. Riviste, bibite e sigarette sono sempre disponibili, ma non è questa di certo la particolarità che lo rende tappa obbligata delle serate qui in città. Di ritorno da un ristorante, è la sorpresa che hanno preparato questa sera per me. Dietro il bancone un uomo sulla settantina, preso dai suoi affari, ci accoglie sornione, specie riconoscendo volti nuovi nel suo rifugio. Sorride con tutti i denti che gli sono rimasti e si affanna a dare la mano a tutti noi, trattenendole tra le sue per un tempo a cui inizialmente non riesco a dare spiegazione. La colgo quando prende la mia, di mano, e comincia ad accarezzarla con alcune dita e poi con l’altra mano, tra gli sguardi divertiti degli altri. Regala poi perle a ripetizione, proponendo ogni sorta di prezzo per stare con lui, uscendo fuori da quello che spesso diventa la sua stessa casa, cercando di abbracciarci. Ogni volta è uno spettacolo diverso ma sempre assicurato. Jafar è uno spettacolo, qui, con la sua omosessualità ostentata, e con l’esuberanza che non riesce a contenere nonostante l’età.
Si raccontano storie, su di lui, di cui alcuni sanciscono con assoluta certezza. Raccontano che sia stata una spia, e che la posizione del suo chiosco non sia del tutto casuale, a pochi metri dall’università. Raccontano che conoscesse tutti, da sempre, e ne conoscesse le abitudini. Chi frequentasse chi, e naturalmente anche le tendenze sessuali. Raccontano che molti furono uccisi in seguito alle sue soffiate, qualche anno fa.
Raccontano, anche se sembra surreale, dopo aver riso così tanto, storie come questa. Sembra tutto così normale, in superficie.

Vakeel Bazaar

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/La gita fuoriporta

I giardini, ed a volte anche le semplici aiuole il venerdì diventano area da gita familiare per gli abitanti di questa città. Si riuniscono in gruppi anche essenziali, marito, moglie e un bambino, ed allestiscono un piccolo banchetto, stendendo una tovaglia sul piccolo frammento di terreno scelto. E’ il panorama umano che ci accompagna lungo il tragitto scelto per questa che anche per noi è giornata di riposo. Ai bordi delle strade, in prossimità di giardini o boschi, è un susseguirsi di macchine posteggiate ai margini e di gente indaffarata in questo momento comune di festa. Ci dirigiamo a poco più che cinquanta chilometri da Shiraz, dopo avere convinto con insistenza la compagnia, che ha già fatto lo stesso giro almeno sei volte, ad ogni nuovo arrivo, verso Persepoli. In mezzo alle montagne aride che circondano tutta la zona, Persepolis era la città costruita da Dario I e dal figlio Serse, una vera meraviglia dell’epoca, andata distrutta nei secoli per mani diverse. Per primo Alessandro Magno, che le diede fuoco, bruciando le parti in legno, e poi definitivamente, dopo la rivoluzione islamica, con la distruzione di ogni immagine che richiamasse l’antica religione Zoroastra, riducendo al minimo le parti intatte e conservate adesso malamente. Ci aggiriamo tra le rovine, risalendo la collina da cui si ha l’immagine completa della reggia di Serse, tra i turisti che comunque non mancano. Per lo più scolaresche, qualche immancabile giapponese (davvero), e iraniani, soprattutto, e per la prima volta da quando sono qui donne in niqab. Immaginare molto di quello che doveva essere, circa cinquecento anni prima di Cristo, quest’area e questa civiltà, pari per valore alle piramidi di Giza o all’Acropoli di Atene, mentre cova una certa rabbia per la solita stupidità di cui possiamo essere capaci.

Un saggio di stupidità

Rabbia che comunque mettiamo rapidamente da parte appena entrati in un ristorante, da consigliare come alternativa alla pizza del sabato sera o al solito Sushi.

Pochi chilometri dopo Persepoli, decisamente popolare, mi ha fatto definitivamente apprezzare la cucina e l’ospitalità farsi, soprattutto dopo che il proprietario ci ha deliziati con un bicchiere dall’apparenza innocuo, ma colmo (colmo) di qualche tipo di grappa locale, che il nostro tassista ha praticamente scolato, mentre ancora cercavo di capire di cosa si trattasse, con buona pace di precetti e mullah. Lasciandoci un minimo sospettosi sul ritorno, ma sul quale ha tenuto a rincuorarci subito dopo dicendo di essere un gran bevitore di vino, che ci avrebbe anche potuto segretamente fornire.

Riso e Zereshk

Ghaymeh, una zuppa di melenzane e carne

Noon, quando avvolge il formaggio e le erbe crude è...
Khoresht-e-Sabzi, il mio preferito della giornata

Il migliore dei tassisti che potessimo trovare insomma, anche perché prima di fare rientro ha deciso di portarci in un posto sicuramente meno noto, ma che sarebbe stato un peccato non vedere, Naqsh-e Rustam, alla tomba di Dario I, con queste tombe scavate nella roccia ad almeno venti metri dal suolo che mi hanno ricordato certe immagini da Indiana Jones e l’ultima crociata, mentre cercavo di coprirmi in qualche modo visto il vento gelido che cominciava a tirare.

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/1

Arrivo a Shiraz alle due e trenta di questo martedì. Mezzanotte in Italia, e sono in uno di quei luoghi in cui mai ti aspetteresti di finire, di quelli da apparirmi già così esotici dalle mezzore nel fuso orario. Sono riuscito stranamente a dormire in volo, distendendomi sulle tre poltrone libere dietro al mio posto ufficiale, tanto che una delle hostess ha dovuto scuotermi all’annuncio delle procedure di atterraggio. Stropicciando gli occhi, li ho rivolti verso i sedili più attigui. L’aereo è quasi vuoto e riempito per di più da gruppi di donne, civettuole e bellissime, di ogni età. Hanno già cominciato a prendere dalle loro elegantissime borse, qualcuna di coccodrillo, qualche altra griffata, i foulard che qualcuna ha già sistemato sulla testa. Assisto ad un rito, ad una pantomima collettiva, ad una deposizione di armi, mentre tornano a casa e si mutilano, segnando una resa per un tempo indefinito, nel quale saranno costrette a nascondere parte della loro naturale, innaturale, bellezza.

E’ grande quest’aeroporto. Com’è naturale per una città di quasi quattro milioni di abitanti, ed è moderno, contemporaneo. Nessun problema con il passaporto, nessuna domanda ulteriore dopo Istanbul, dove hanno voluto accertarsi che non sia mai stato in Israele. Accendo il telefono, cerco per abitudine una wi-fi libera, e incredibilmente la ritrovo, senza credere ai miei occhi. Come al Cairo, come non succede mai in Italia. Ricevo qualche iMessage rimasto appeso da qualche ora, ci sono mondo, sono atterrato. Provo a guardare i nuovi cinguettii e le nuove notifiche su fb, ma non vanno, nessun aggiornamento, sembrano bloccati questi siti, come mi aspettavo.

Raggiungo la hall recuperando il bagaglio sul nastro spento e non faccio in tempo a districarmi tra i tassisti locali che vengo raggiunto dal mio contatto. Ci riconosciamo, e mi chiedo se anche lui sia italiano, guardando l’insieme della sua statura, dei suoi occhi azzurri, e del berretto molto occidentale che nasconde una chierica giovanile. Fuori dall’aeroporto gran silenzio, sono intanto già le tre passate e , il nostro autista dorme sul volante della sua Paykan. Guardandomi intorno mi rendo conto da quanto l’insieme sia lontano da ciò che immaginavo. Strade in ordine, aiuole curate, e ai bordi della strada nessuna baraccopoli, ma solo case eleganti e in ordine. Toccherà fare ordine anche tra i miei stereotipi in questi giorni, già penso.

Nulla sembra dare l’idea delle tensioni internazionali raccontate in questi giorni, mentre comincio a fare conoscenza con Amin e il taxi si muove, senza incrociare una macchina, verso questo nuovo albergo.

p.s. Il titolo è chiaro, no?