Lunedi 21/01/2008. Ore 02:40.
Arrivo alla stazione di Bologna e mi incammino velocemente verso la sala d’attesa in cerca di un po’ di calore. Michele è dietro di me, in questa notte di imprevisti aver incontrato un amico con cui condividere questo percorso tortuoso che mi ha condotto su e giù per l’Italia, da Palermo a Venezia per arrivare fin qui, rende tutto più accettabile.
Un universo nascosto prende forma davanti ai nostri occhi, un universo fatto di uomini e donne consacrati all’ombra dalle nostre vite che corrono veloci senza aver tempo per osservare. La stazione è viva anche di notte, viva da chi la sente come la propria casa. Trovarsi li ci porta in una dimensione quasi sconosciuta, seppur familiare, in cui entriamo con dimissione, cercando di non disturbare più di tanto. La sala d’attesa è il miglior dormitorio ad essi concesso, in cui ogni sedile ha il senso della conquista di un calore negato. Cerchiamo due posti dopo poter anche noi dormire in attesa del treno che passerà soltanto tra un’ora e mezza. Troviamo posto accanto ad una donna di oltre settant’anni con le gambe conserte a contenere sacchetti stracolmi di ciò che per lei è di più utile, e forse di più caro. Viene subito infastidita da due uomini che vogliono rubarle il posto. Lei impreca ed urla in un dialetto bolognese a me incomprensibile. È li che prendo il libro tra le mani, ho poca voglia di dormire, so che non potrei riuscirci.
Vengo subito preso dalla forza di questo libro cosi sottile ma cosi efficace. E’ un concentrato di emozioni e di ricordi rivissute dalle parole di un uomo, nel 1970 solo un bambino di due anni, che ha perso il proprio padre, Luigi Calabresi(#), vittima della follia pseudo-rivoluzionaria, crudele e insensata, del terrorismo politico degli anni 70. Conoscevo poco questa parte della nostra storia, forse perché la fine di questo periodo corrisponde pressappoco con la mia nascita. Ma negli ultimi tempi, per una curiosità nata spulciando le pagine di wikipedia, ho cominciato prima a leggere un libro che raccontava la storia di Lotta continua e dei movimenti sessantottini in Italia e poi, da un dialogo con Ale, mio fratello, ad imbattermi in questo libro di cui avevo solo sentito parlare nei mesi precedenti. Il successo avuto non era casuale.
Lo stile è asciutto e privo di formali sentimentalismi, ma è cosi diretto da colpire dritto al bersaglio. E cosi mi trovo a ripercorrere alcune immagini familiari e la storia delle accuse create attorno al nome del commissario Calabresi dopo il suicidio (secondo alcuni ancora omicidio) dell’anarchico Pinelli. Aldilà della riproposizione del fatto storico e delle conseguenze giudiziarie, sempre viste dall’ottica intima della famiglia Calabresi, ciò che più emoziona sono i piccoli frammenti di quotidianità, i momenti di sofferenza, di solitudine, di una famiglia che cerca di superare un dolore immenso, e vi riesce tramite la forza della madre, che, come ripete spesso l’autore, ha deciso di scommettere sulla vita, e non sull’odio e sul desiderio di vendetta pur plausibile. Lo scrittore riesce a trasmettere il senso della sua ricerca, fin dall’adolescenza, del motivo per il quale si sia trovato da solo con i suoi fratelli in un’Italia incapace di vederli come vittime di un’atrocità, un’Italia che condivide in alcune fasi storiche le lotte dei brigatisti, e che ancora oggi non ha fatto i conti con il buio di quegli anni.
Ho voglia di staccare la lettura, in alcuni passaggi ho retto l’emozione a stento. Soltanto adesso mi rendo conto di essere in un luogo simbolo di quel periodo, la sala d’attesa della stazione di Bologna, dove, il 2 Agosto 1980 (#), persero la vita 85 persone per una delle ultime stragi terroristiche di quegli anni. Sembra quasi ricongiungersi cosi il filo con Piazza Fontana, luogo dell’inizio ideale degli anni di Piombo, e causa postuma della morte di Calabresi. Mi sembra tutto una così strana coincidenza, cosi strana da sembrare più vicina ad un sogno che alla realtà. La nebbia di Parma e un viaggio incasinato, ha portato con se sorprese, emozioni e coincidenze inaspettate. A pochi metri da me c’è la lapide con riportati i nomi delle vittime, in basso vi sono fiori freschi, segno di una ferita non rimarginata, e ripercorro lentamente ed uno per uno la lista, e dall’età e da pochi altri indizi visibili penso alle probabili storie nascoste dietro quelle lettere metalliche. Ripenso ad un film visto tempo fa, “da Zero a Dieci”,di Luciano Ligabue, in qualche modo legato a quest’evento, in cui, con estrema delicatezza si racconta di un gruppo di amici che vuole rivivere a Rimini una vacanza finita prematuramente piu di diec’anni addietro, quando un amico che doveva aggiungerli muore vittima di quella bomba.
Ripenso a quanto sia stato stupido pensare di fare una rivoluzione armata, che indiscriminatamente uccide delle persone semplicemente perchè capaci nel fare il proprio lavoro, perchè simboli dello stato, che, seppur marcio rappresenta l’unico riferimento. Cosa ci sarebbe senza di esso? Penso ai tanti misteri italiani taciuti e nascosti, al bisogno di capire che dovrebbe nascere da ognuno di noi per comprendere il nostro passato e per evitare che certi errori si ripresentino. Penso a Umberto Bossi che pochi giorni fa ha detto di aver pronto le armi nel caso in cui non si andasse al voto, la memoria e il rispetto delle vittime non dovrebbero far vergognare di dire, o solo pensare certe parole? O è più forte l’ignoranza?
Il treno è quasi arrivato, sveglio Michele, che si era appisolato su quel sedile, prendiamo i nostri pochi bagagli e ci muoviamo verso il binario 9, in una stazione ancora silenziosa, dove infreddoliti aspettiamo un treno che interromperà questa notte quasi onirica per portarci verso un’altra giornata di lavoro.