Ma ricordo dieci anni fa, quando aspettavamo che il Palermo salisse in serie A come se fosse un traguardo irraggiungibile, dal quale potesse partire una sorta di rinascita della città, che in quel momento stava vivendo qualche fermento positivo. E quindi sono contento, anche adesso che seguo il calcio da più lontano, annoiato delle pay tv e dei soliti commenti a margine delle partite.
Per questo sabato sono andato a riguardarmi le vecchie foto, sgranate, fatte con una macchina digitale in prestito, e ho recuperato persino una grossolana presentazione in powerpoint che odora di ingenuità e genuità, ma attraverso la quale recupero il senso di quei sorrisi spiritati di una città che fino ad allora non avevo visto condividere una gioia così immotivata.
La presentazione è adesso su slideshare e peccato che abbia perso la colonna sonora, con l’inno d’annata di Alamia e Sperandeo.
Evidenzio una differenza. Guardo da lontano il modo in cui i palermitani guardano al Festino, come osservano e come partecipano ad una tradizione, ogni anno diversa, ogni anno tradizionalmente uguale da trecento ottantotto anni.
Penso alla spocchiosa maniera con cui tanti pensano a questa sfilata per le strade del Cassaro, tra folle appiccicose, sudate come solo lo si può essere in spazi così stretti e affollati in una notte d’estate. Allo sfuggire per le strade dell’Albergheria, cercando di recuperare terreno per capire cosa accadrà in qualche altro incrocio essenziale, ai Quattro Canti dove il sindaco griderà, forse, quest’anno, il grido che si aspetta come segno di appartenenza e di partecipazione.
Una ressa popolare e profana a cui è nettamente meglio non partecipare. Come fanno per la maggior parte i palermitani. Quelli che non hanno voglia di sudare, quelli che semplicemente se ne fottono, quelli educati a guardare con distacco a questi eventi popolari, così come si faceva negli anni settanta, quando il dialetto si doveva nascondere, gli scarponi sporchi di terra riporli nell’armadio ed indossare il vestito del buon cittadino moderno. Come si faceva così in ogni angolo della Sicilia, del Sud. Come si faceva allora. Probabilmente ovunque.
Poi tutto è cambiato, nelle trionfo delle tarante e delle tarantelle, delle foto in bianco e nero delle pubblicità di Dolce e Gabbana, delle coppole d’arte vendute alle bancarelle, nell’ambientalismo di ritorno ad un mondo che si vorrebbe fermo mentre tutto il resto, le nostre vite, si muovono ad un’altra velocità.
Una sensazione che percepisco anche nella differente partecipazione tra chi è rimasto e chi si è distaccato da quei luoghi. Tra chi, essendo parte di quei luoghi, non ha bisogno di quei giorni per ribadire un’appartenenza. E tra chi, pur non avendo mai partecipato al Festino, a feste come quelle, sente il bisogno di esserci, almeno qualche volta, almeno quest’anno, per la necessità estrema, epidermica, di ricordarsi cosa si è, nonostante ciò sia soltanto una proiezione di un mondo di cui non si è mai stati parte.
Sarà la prima volta che non potrò votare, Palermo è lontana, e posso avere soltanto una residenza per volta. Ma la testa è rivolta li, come sempre. Fossi stato lì, sarei stato obbligato a scegliere, ma questa condizione di parziale spettatore mi ha evitato una scelta difficile. Ferrandelli e Orlando se le sono date di santa ragione in questa campagna elettorale, ed avrei molto da rimproverare ad entrambi per ragioni diverse. Rimprovererei ad Orlando l’incapacità nel rendere servizio alla città senza essere sempre e comunque protagonista, quando la sua esperienza poteva essere messa al servizio di qualche volto nuovo, in quell’auspicato desiderio di rinnovamento che cova nell’elettorato intero. Ma questo è un discorso intero e ritrito su una generazione che continua a non volere lasciare la prima pagina dei giornali, a non volere lasciare le posizioni che contano.
Rimprovero a Ferrandelli certe amicizie pericolose di cui si è vociferato in questi mesi, un atteggiamento ecumenico e trasversale da politico consumato, diverso per molti aspetti da quello che ricordavo all’inizio del suo percorso politico.
Degli altri non ci sarebbe neanche da parlarne, anche se questo continuo darsi la zappa sui piedi potrà portare qualche volto di un rinnovamento di plastica verso la poltrona di sindaco. Sicuramente potrà far bene Nuti ed il M5S, ma non sarà sicuramente il voto di questi due giorni a cambiare il volto di Palermo, soprattutto perché le risposte che dovranno venire dal prossimo sindaco non saranno quelle che la maggioranza dei Palermitani si aspetta. Un lavoro, una sistemazione per il figlio, domande che dovranno (sarebbe il minimo) rimanere inevase, nonostante le promesse di questi mesi.
Ma i miei sono occhi che guardano da lontano, ed i pochi giorni trascorsi nelle scorse settimane per le vie della città mi hanno riportato ad un atteggiamento di sconforto. Quando uscendo dalla metropolitana ho visto sui manifesti elettorali volti che ricordavo per le strade del mio quartiere a far passare il tempo in maniera più o meno lecita, quando ho visto il volto più pulito (soltanto perché non passato dal carcere almeno lui) di una acclarata famiglia mafiosa del quartiere candidarsi alla circoscrizione, ho capito che la fiducia nella capacità dei miei concittadini di fare scelte lungimiranti stanno a zero.
E disaffezione alla politica e sconforto generalizzato di molti onesti cittadini daranno libero spazio al peggio che la politica possa produrre. Sarebbe un peccato, visto che le energie non mancano, come quelle che raccontavo qualche tempo fa, come quelle del Teatro Garibaldi occupato, in questi giorni.
Buona domenica Palermo.
p.s. Rubando l’idea a Moby Dick, la migliore trasmissione musicale degli ultimi anni, ho raccolto una playlist palermitana.
Siamo poi gente che ha bisogno di vittorie, o meglio, siamo un popolo che ha bisogno di vittorie, come direbbe Sofri nel suo libro. E così oggi è quasi un giorno di festa, con dei sorrisi che si aprono, in questa politica vissuta come un tifo da stadio, in cui un giorno così è un’occasione buona per indossare una polo rossa, anche se poi tutto è relativo, ed è ancora troppo presto. Ciò che importa e che per una volta le risposte su cui non riponevamo molte speranze, sono state smentite dalla realtà verso una direzione che non pensavamo di aspettarci, pessimisti come siamo diventati. Adesso, probabilmente, capiranno che non siamo poi gente su cui strategie da tea party possono funzionare, e che probabilmente l’antivirus verso certe grevità l’abbiamo già in noi, ed ogni tanto ce ne ricordiamo. Hanno perso in tanti, e farebbero bene ad accorgersene, ma loro, almeno abbasseranno i toni, comprensibilmente, e la Moratti si morderà le labbra su quella frase, a cui si è prestata, e che è anche solo il simbolo di una deriva evitata.
Pensavo a questo svegliandomi stamattina e controllando, con tocco scaramantico, che tutto fosse esattamente come ieri sera l’avevo lasciato. Aggiungendo questo a quei momenti di trascurabile felicità, come li definisce Francesco Piccolo in un libro letto poco tempo fa, e perso in qualche hotel poche pagine prima della fine. Ci pensavo constatando che, tra l’altro, quella domenica lì sarà si quei dei ballottaggi, ma anche quella della finale. Quella di coppa Italia, intendo.
I Palermitani hanno voltato le spalle al mare, si dice. Basta guardare ai suoi colli, così punteggiati da migliaia di case, e pensare, di contrasto, all’idea che ad oggi l’unica spiaggia cittadina sia Mondello, dall’altra parte di Monte Pellegrino, separata nettamente dalla città dal Parco della Favorita. Non è sempre stato così, e basterebbe guardare immagini precedenti alla seconda guerra, per rendersi conto come il mare entrasse nella città, giungesse a pochi metri da Porta Felice, e come le spiagge di Romagnolo ed Acqua dei Corsari fossero popolate dai palermitani, magari i più poveri, che in quel mare trovavano ristoro dalle fatiche di ogni giorno.
Poi, la guerra, i bombardamenti, i detriti buttati in mare, e la città che ha messo terra tra lei e il mare.
Del resto, quando durante le ricreazioni delle superiori, ci spingevamo verso il mare di Romagnolo, di tanto in tanto ci chiedevamo come mai quelle spiagge fossero dimenticate da Dio e luogo buono soltanto per gettare rifiuti. Guardavamo, passando velocemente, ai tempi, la zona del Foro Italico frequentate da baraccopoli e giostre, ed ignoravamo totalmente l’esistenza di un passato diverso. Gli anni, fortunatamente, hanno portato ad un recupero di alcune zone, e con esso al desiderio di volgere lo sguardo al mare, come avviene in qualsiasi altra città del mediterraneo.
A farmi venire certi pensieri, in questa giornata passata in casa a sedare la febbre, sono stati certi spezzoni di un documentario, dal didascalico nome Marenegato, dal quale sono stato effettivamente rapito.
Un progetto per raccontare qual’era Palermo e qual’era il suo rapporto con il mare, le mutazioni e le storie che, inevitabilmente, sarebbero andate perdute. Come l’avventura dell’Acquario di Palermo, e del suo creatore Eliodoro Catalano, l’uomo pesce, come definito nelle cronache dell’epoca, e la sua storia della cernia voluttuosa e morta ubriaca, ma felice, o ancora dell’Acquasanta e delle sue sorgenti di acqua miracolose che arrivavano fino in mare, e dove la regina Carolina d’Austria veniva a ristorarsi.