Qualcosa è cambiato. La politica, la partecipazione, il web.

Per provare ad immaginare come Internet, e la sua espansione abbiano cambiato la politica ed il rapporto con cui i cittadini si rapportano ad esso, potremmo cominciare pensando a quanto avvenuto in questi giorni, in occasione dell’elezione del capo dello Stato.Si è avuta la sensazione che i vertici dei Partiti abbiano per la prima volta percepito la protesta che andava riempiendo le pagine dei social network che frequentiamo abitualmente, ed abbiano preso per la prima volta in considerazione l’ipotesi che la grande massa informe degli utenti di Internet, un tempo derubricata a giochetto di un gruppetto di nerd, o di qualche esagitato, potesse essere in grado di influenzare scelte che il più delle volte venivano condotte nelle stanze dei palazzi Romani. Se pensiamo a ciò che sarebbe avvenuto qualche tempo fa, nelle stesse condizioni, avremmo avuto qualche notizia al TG della sera, qualche intervista veloce all’esponente del partito che avrebbe manifestato la propria distanza da tale scelta, e poi tutto sarebbe finito li. Avremmo avuto Franco Marini presidente in poco meno di un giorno. Magari ne avremmo discusso al mercato, sabato mattina, o al bar, a giochi già fatti.Invece il tam tam sulla rete, i tweet, le raccolte di firme, il mail bombing hanno, in un certo qual modo, invaso le stanze dei partiti, fino a diventare un rumore assordante tale per cui duecento deputati si sono allontanati da questa scelta.E’ successo tutto quello che sappiamo, il segretario Bersani che cerca di governare una nave impazzita della quale non riesce a tenere il timone, in cui ogni proposta viene boicottata. Ed infine il ritorno al passato con la richiesta di un reincarico per Napolitano.Potremmo da questo trarre considerazioni anche sul cosiddetto “vincolo di mandato”, ma me ne guardo bene in questo momento, perché non è questo il punto che voglio sottolineare. Quello che importa è capire che le modalità di partecipazione alla vita politica sono cambiate, ed è cambiato soprattutto il modo il cui questa viene percepita dai nostri rappresentanti in parlamento.Ci siamo di fatto convinti che una forma di partecipazione alla vita democratica del paese che vada oltre la partecipazione al voto una volta ogni cinque anni, sia diventata necessaria.I nuovi strumenti della rete ci hanno consentito una maggiore vicinanza nel comune sentire, ci hanno avvicinato insomma a chi la pensa come noi, costituendo quella massa critica che può avere un peso nella vita democratica. E’ stata insomma applicata, in una forma anarchica, quella democrazia partecipativa che da anni viene raccontata come terra promessa, ma che ha un suo fondamento nella cattiva gestione della res pubblica, nella mancanza di trasparenza che ha caratterizzato le scelte degli amministratori in questi anni. Del resto è una spinta che sentivamo da tempo nelle nostre comunità, e che ha portato alla creazione di comitati di cittadini che si occupano di questioni specifiche, di veri e propri partiti (che come tali non amano definirsi, comunque) che di queste istanze si fanno portatrici, e che arrivano ad ottenere i voti da parte di un terzo dell’elettorato. Un’esigenza di partecipazione che nel mondo ha un eguale sentire, dagli indignados spagnoli, ai vari movimenti Occupy, dal Pirate Party tedesco, ma che non è stata ancora in grado di trovare un metodo affinché le scelte della base possano essere riprodotte dai propri rappresentanti. Perché una strada sicura dai possibili, e probabili, brogli ancora non è stato individuata. Ed in Italia, dove Casaleggio favoleggia sulla creazione di un software in grado di riuscire a colmare questo consistente gap, le decisioni vengono prese attraverso un sondaggio dalle modalità poco chiare, o peggio ancora da un’unica persona che si fa portatrice delle presunte esigenze della base, perseguendo in realtà il più pericoloso dei disegni.Senza arrivare a questi estremismi, il tema è sicuramente interessante ed è auspicabile che quante più persone si interessino alla cosa pubblica e arrivino a partecipare alle scelte della collettività, ma queste forme di partecipazione dovrebbero essere prima di tutto testate, applicate alle piccole realtà, ai piccoli comuni. Non confidando esclusivamente nella rete come strumento di partecipazione per poter raggiungere anche coloro che non sono ancora in grado di sfruttare le potenzialità della Rete.Oltretutto questa estrema fiducia nelle masse e nella competenza diffusa ha dei limiti piuttosto evidenti. Nessuno chiederebbe al proprio meccanico di curare i denti dei propri figli, così come su ogni aspetto della gestione pubblica sarà sempre necessaria quel grado di competenza, quel professionismo della politica, così tanto dileggiato di questi tempi.Lasciare libero campo alla rabbia da sicuramente vantaggi dal punto di vista elettorale, ma diventa pericoloso se questa prende il sopravvento sulla razionalità, che dovrebbe essere alla base delle scelte più condivise. Diventa soprattutto pericoloso quando si perde la fascinazione per la complessità e rimangono soltanto le semplificazioni. E dopo aver parlato per anni dell’influenza che la tv degli anni 80 ha avuto sulle scelte politiche dei vent’anni successivi, dovremmo cominciare a quanto la mancanza di approfondimento, la faciloneria di certi giornalisti, l’indignazione divenuta strumento di marketing, possano essere utilizzate in maniera strumentale da chi avrà i mezzi, e le capacità, per farlo. Pensavo a questo guardando qualche giorno fa una serie inglese, Black Mirror, nella quale un pupazzo televisivo viene candidato in una circoscrizione dopo aver dileggiato in tv i candidati ufficiali dei Laburisti e dei Conservatori, colpevoli dell’essere “della stessa pasta”. Molti ne ammirano i suoi toni e spingono per la sua candidatura, ma alla fine il vecchio sistema torna a vincere, perché poi quello che conta della protesta è che rimanga tale, senza assumersi delle responsabilità. Perché ciò che vale, soprattutto, è continuare a vendere il brand del pupazzo,che parte alla conquista di nuovi mercati mondiali.I limiti di quest’impostazione sono insomma tutti davanti ai nostri occhi, ma voltarsi dall’altra parte continua a non essere la soluzione. Restare sulla tavola da surf nonostante queste onde, continuando ad esercitare la razionalità, sarà una sfida, da ora in avanti. Perché i nuovi strumenti della Rete non sono di per se né buoni né cattivi, e dove andremo a parare dipenderà soprattutto dal nostro modo modo di utilizzarlo.

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