Che tipo strano/2

Quando qualcuno sul sedile posteriore dell’auto mi parla e non lo sento, io, istintivamente, alzo il volume della radio.

Che tipo strano

Io, quando in estate mi trovo in macchina e non sono preso dalla briga di guidare, mi metto a guardare fuori e con il pollice e l’indice disegno  un piccolo spazio. Ci guardo poi attraverso e cerco tutti gli oggetti che nell’orizzonte riescono a stare all’interno di quello spazio, siano un guardrail, ed allora potrei proseguire per chilometri con lo stesso oggetto, o una pala eolica, un albero o una casa. Vai a capire perché.

Contro la modernità

Dopo aver preso due sacchetti per paura che le birre si frantumassero a terra, mi sono convinto che se il mater-bi è il futuro io torno indietro.

Col massimo rispetto, frà.

Avrei evitato, qualche sera fa, di assistere ad un concerto dei Club Dogo, e non per innaturale stizza nei confronti di qualsiasi gruppo rap, ma tanto per una reazione epidermica che questi qui, e loro simili, possono scatenarmi. Ed invece mi sono trovato a poca distanza dal palco, complice il banchetto di AddioPizzo che per qualche sera abbiamo tenuto al Carroponte, reperto industriale della Milano che non c’è più, affidato ad oggi all’Arci e trasformata in un’area affascinante da concerti.

Le cose che ho capito, guardandoli da vicino, è che fare il rap oggi è materia piuttosto semplice, e che, dai tempi dei Sangue Misto e dei Sottotono, questi qui hanno capito la lezione degli americani per cui giocare a fare i cattivi paga sempre. Soprattutto se il tuo target di riferimento sono i quindicenni, e non vuoi andar oltre. L’effetto è lo stesso che, del resto, otteneva Shrek sui più piccoli ogni volta che pronuncia la parola “cacca”. Successo facile. E poi rime veloci a base di populismo d’accatto, quello che va così tanto, alla Beppe Grillo insomma, ed il gioco è fatto. Che poi, poracci, certe rime fanno ridere anche me, e vorrei sperare che si guardino allo specchio con ironia ogni volta che producono “bella zio” a ripetizione ed “Ehi brotha, rompiamogli il culo” da ragazzacci di borgata che sperano di entrare all’Hollywood.

Ma se l’effetto poi prodotto è quello che potrei giudicare da quanti si sono avvicinati al nostro banchetto quella sera, mi viene da pensare piuttosto ad un’altra camera di produzione di menefreghismo, costruita con grande maestria. °Finta, non come le loro Nike nuove.

Datemi piuttosto le rime senza senso alla “rap turubistico”, o quelle con cui mi divertivo quando avevo quindici anni, quando di inglese non capivo proprio una cippa.  Datemi almeno una base decente su cui ballare, perdio.

Greetings from Dubai/5 . Il rientro

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Quando torno a casa, dopo un viaggio lungo come questo, svuotare la valigia è rimescolare i ricordi di un mese, uno per volta. Adesso sarò pronto per l’Italia?

Greetings from Dubai 4/Fatto. O forse no.

Ci sono stato, sul grattacielo più alto che c’è. Soltanto che poi mi sono guardato intorno e non c’era nessuno.

Si certo, ho guardato anche in basso, ma c’era una gran foschia, da non vedere, a terra, oltre i cento metri, per cui neanche li giù si riusciva a distinguere un granché, se non le linee disegnate dalle automobili sulle loro strade a sei corsie. E poco più.

Che non fosse un’esperienza esaltante mi era stato anticipato, però, quanto meno, vedere la città per intero mi aspettavo mi fosse concesso. E pensare che se lo fanno pagare anche caro (100 dirham, circa 20 euro, solo perché ho prenotato da internet, che sennò ne volevano 400, sti folli) un giro in ascensore di appena un minuto fino al centoventiquattresimo piano.