Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/Jafar

A pochi metri dall’ingresso dell’università un piccolo chiosco resta aperto a tutte le ore del giorno, e della notte. Riviste, bibite e sigarette sono sempre disponibili, ma non è questa di certo la particolarità che lo rende tappa obbligata delle serate qui in città. Di ritorno da un ristorante, è la sorpresa che hanno preparato questa sera per me. Dietro il bancone un uomo sulla settantina, preso dai suoi affari, ci accoglie sornione, specie riconoscendo volti nuovi nel suo rifugio. Sorride con tutti i denti che gli sono rimasti e si affanna a dare la mano a tutti noi, trattenendole tra le sue per un tempo a cui inizialmente non riesco a dare spiegazione. La colgo quando prende la mia, di mano, e comincia ad accarezzarla con alcune dita e poi con l’altra mano, tra gli sguardi divertiti degli altri. Regala poi perle a ripetizione, proponendo ogni sorta di prezzo per stare con lui, uscendo fuori da quello che spesso diventa la sua stessa casa, cercando di abbracciarci. Ogni volta è uno spettacolo diverso ma sempre assicurato. Jafar è uno spettacolo, qui, con la sua omosessualità ostentata, e con l’esuberanza che non riesce a contenere nonostante l’età.
Si raccontano storie, su di lui, di cui alcuni sanciscono con assoluta certezza. Raccontano che sia stata una spia, e che la posizione del suo chiosco non sia del tutto casuale, a pochi metri dall’università. Raccontano che conoscesse tutti, da sempre, e ne conoscesse le abitudini. Chi frequentasse chi, e naturalmente anche le tendenze sessuali. Raccontano che molti furono uccisi in seguito alle sue soffiate, qualche anno fa.
Raccontano, anche se sembra surreale, dopo aver riso così tanto, storie come questa. Sembra tutto così normale, in superficie.

Vakeel Bazaar

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/La gita fuoriporta

I giardini, ed a volte anche le semplici aiuole il venerdì diventano area da gita familiare per gli abitanti di questa città. Si riuniscono in gruppi anche essenziali, marito, moglie e un bambino, ed allestiscono un piccolo banchetto, stendendo una tovaglia sul piccolo frammento di terreno scelto. E’ il panorama umano che ci accompagna lungo il tragitto scelto per questa che anche per noi è giornata di riposo. Ai bordi delle strade, in prossimità di giardini o boschi, è un susseguirsi di macchine posteggiate ai margini e di gente indaffarata in questo momento comune di festa. Ci dirigiamo a poco più che cinquanta chilometri da Shiraz, dopo avere convinto con insistenza la compagnia, che ha già fatto lo stesso giro almeno sei volte, ad ogni nuovo arrivo, verso Persepoli. In mezzo alle montagne aride che circondano tutta la zona, Persepolis era la città costruita da Dario I e dal figlio Serse, una vera meraviglia dell’epoca, andata distrutta nei secoli per mani diverse. Per primo Alessandro Magno, che le diede fuoco, bruciando le parti in legno, e poi definitivamente, dopo la rivoluzione islamica, con la distruzione di ogni immagine che richiamasse l’antica religione Zoroastra, riducendo al minimo le parti intatte e conservate adesso malamente. Ci aggiriamo tra le rovine, risalendo la collina da cui si ha l’immagine completa della reggia di Serse, tra i turisti che comunque non mancano. Per lo più scolaresche, qualche immancabile giapponese (davvero), e iraniani, soprattutto, e per la prima volta da quando sono qui donne in niqab. Immaginare molto di quello che doveva essere, circa cinquecento anni prima di Cristo, quest’area e questa civiltà, pari per valore alle piramidi di Giza o all’Acropoli di Atene, mentre cova una certa rabbia per la solita stupidità di cui possiamo essere capaci.

Un saggio di stupidità

Rabbia che comunque mettiamo rapidamente da parte appena entrati in un ristorante, da consigliare come alternativa alla pizza del sabato sera o al solito Sushi.

Pochi chilometri dopo Persepoli, decisamente popolare, mi ha fatto definitivamente apprezzare la cucina e l’ospitalità farsi, soprattutto dopo che il proprietario ci ha deliziati con un bicchiere dall’apparenza innocuo, ma colmo (colmo) di qualche tipo di grappa locale, che il nostro tassista ha praticamente scolato, mentre ancora cercavo di capire di cosa si trattasse, con buona pace di precetti e mullah. Lasciandoci un minimo sospettosi sul ritorno, ma sul quale ha tenuto a rincuorarci subito dopo dicendo di essere un gran bevitore di vino, che ci avrebbe anche potuto segretamente fornire.

Riso e Zereshk

Ghaymeh, una zuppa di melenzane e carne

Noon, quando avvolge il formaggio e le erbe crude è...
Khoresht-e-Sabzi, il mio preferito della giornata

Il migliore dei tassisti che potessimo trovare insomma, anche perché prima di fare rientro ha deciso di portarci in un posto sicuramente meno noto, ma che sarebbe stato un peccato non vedere, Naqsh-e Rustam, alla tomba di Dario I, con queste tombe scavate nella roccia ad almeno venti metri dal suolo che mi hanno ricordato certe immagini da Indiana Jones e l’ultima crociata, mentre cercavo di coprirmi in qualche modo visto il vento gelido che cominciava a tirare.

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/2

Quello che mi aspetto da un qualsiasi fine settimana occidentale lo ritrovo anche qui, giovedì sera. Le strade diventano trafficate in corrispondenza del centro, mentre il nostro tassista cerca di districarsi con inversioni ad u su strade a quattro corsie o sfiorando le macchine più vicine per tentare un sorpasso, mentre ragazzi in rollerblade si infilano tra una e l’altra, sfidando la sorte ed il carcere (così mi dicono), tra uno slalom e l’altro. Le distanze così ravvicinate consentono poi sguardi più ravvicinati tra un abitacolo e l’altro ed è divertente incrociare quelle di donne che sorridono o che, riconoscendoti come occidentale, cominciano ad atteggiarsi e a ballare per attirare l’attenzione in qualche modo, non mancando minimamente il bersaglio.
E’ evidente il desiderio di libertà che si respira parlando o più semplicemente osservando gli atteggiamenti con cui si sono mostrati a noi, ma con il quale, più semplicemente, vivono ogni giorno. Tutto appare normale, nella vita di ogni giorno, da far dimenticare quello che i quattro caproni che li governano decidono ogni giorno da Teheran sulle loro teste.
L’unico segno evidente di anomalia che si riscontra facilmente si ha navigando sulla Rete. Molti siti sono bloccati. Twitter, Facebook, ma anche semplici siti di notizie, Repubblica, Corriere o La Stampa rimandano ad un’incomprensibile pagina in farsi. Ma anche per quello esiste il rimedio e sono tutti attrezzati con semplici programmi che creano tunnel (non facciamo i nerd, su) per passare tra le maglie della censura. Devi sviluppare una sensibilità superiore per cogliere i dettagli capaci di farti drizzare le orecchie. Chi è qua da più tempo nota dettagli a me difficilmente comprensibili, dopo solo tre giorni. Le macchine della polizia più frequenti. Su una collina che incrociamo recandoci sull’impianto, il numero maggiore di cannoni che sbucano dal terreno, in una zona militare non così lontana da un piccolo abitato. O, come Saadi (un nome fittizio), il nostro contatto qui, ci raccontava oggi, difficoltà ben più tangibili. Come l’impossibilità nel reperire dall’estero, viste le scarse riserve interne, il materiale necessario per produrre prodotti per la dialisi. Un problema di cui si stava occupando in prima persona, avendo una società di import/export e di referenze per le società straniere, dopo una telefonata del padre, disperato per non aver trovato lui una via per importare queste attraverso le vie tradizionali.

Sono problemi che non riscontri facilmente camminando tranquillamente per le strade, frequentando i loro ristoranti, sedendosi tra coppie che sorseggiano the. Quello che vedi è solo una ricercata normalità, una naturale libertà negli atteggiamenti, che ti va venire voglia di esserci, quel giorno.

Da “Pollo alle prugne” di Marjane Satrapi

Leggere Colazione da Tiffany a Shiraz/1

Arrivo a Shiraz alle due e trenta di questo martedì. Mezzanotte in Italia, e sono in uno di quei luoghi in cui mai ti aspetteresti di finire, di quelli da apparirmi già così esotici dalle mezzore nel fuso orario. Sono riuscito stranamente a dormire in volo, distendendomi sulle tre poltrone libere dietro al mio posto ufficiale, tanto che una delle hostess ha dovuto scuotermi all’annuncio delle procedure di atterraggio. Stropicciando gli occhi, li ho rivolti verso i sedili più attigui. L’aereo è quasi vuoto e riempito per di più da gruppi di donne, civettuole e bellissime, di ogni età. Hanno già cominciato a prendere dalle loro elegantissime borse, qualcuna di coccodrillo, qualche altra griffata, i foulard che qualcuna ha già sistemato sulla testa. Assisto ad un rito, ad una pantomima collettiva, ad una deposizione di armi, mentre tornano a casa e si mutilano, segnando una resa per un tempo indefinito, nel quale saranno costrette a nascondere parte della loro naturale, innaturale, bellezza.

E’ grande quest’aeroporto. Com’è naturale per una città di quasi quattro milioni di abitanti, ed è moderno, contemporaneo. Nessun problema con il passaporto, nessuna domanda ulteriore dopo Istanbul, dove hanno voluto accertarsi che non sia mai stato in Israele. Accendo il telefono, cerco per abitudine una wi-fi libera, e incredibilmente la ritrovo, senza credere ai miei occhi. Come al Cairo, come non succede mai in Italia. Ricevo qualche iMessage rimasto appeso da qualche ora, ci sono mondo, sono atterrato. Provo a guardare i nuovi cinguettii e le nuove notifiche su fb, ma non vanno, nessun aggiornamento, sembrano bloccati questi siti, come mi aspettavo.

Raggiungo la hall recuperando il bagaglio sul nastro spento e non faccio in tempo a districarmi tra i tassisti locali che vengo raggiunto dal mio contatto. Ci riconosciamo, e mi chiedo se anche lui sia italiano, guardando l’insieme della sua statura, dei suoi occhi azzurri, e del berretto molto occidentale che nasconde una chierica giovanile. Fuori dall’aeroporto gran silenzio, sono intanto già le tre passate e , il nostro autista dorme sul volante della sua Paykan. Guardandomi intorno mi rendo conto da quanto l’insieme sia lontano da ciò che immaginavo. Strade in ordine, aiuole curate, e ai bordi della strada nessuna baraccopoli, ma solo case eleganti e in ordine. Toccherà fare ordine anche tra i miei stereotipi in questi giorni, già penso.

Nulla sembra dare l’idea delle tensioni internazionali raccontate in questi giorni, mentre comincio a fare conoscenza con Amin e il taxi si muove, senza incrociare una macchina, verso questo nuovo albergo.

p.s. Il titolo è chiaro, no?

Mi piace. Punto.

Dare una connotazione sociologica a qualsiasi successo del momento, è una tentazione inevitabile per gli scrivani di mezzo mondo. Vacanze di Natale flop al botteghino? Un altro segno chiaro della fine del berlusconismo. Lady Gaga prima in classifica? La voglia di leggerezza di cui abbiamo bisogno in un periodo di crisi. The Artist piace a tutti, ed a sinistra più che mai? Normale, per come rappresenta un personaggio che rifiuta il mondo che avanza costruendo delle barricate alla modernità e rifugiandosi in ciò che lo aveva reso felice. Per come rappresenta tutti noi, esseri che vivono con difficoltà un mondo che va troppo veloce rispetto alle proprie gambe. Come la Camusso con l’articolo 18 e i giornalisti del Manifesto con le difficoltà nel far fronte alla crisi dell’editoria.

E non può essere che sia piaciuto semplicemente perché fatto benissimo, curato nei dettagli, sapiente nel toccare le corde delle emozioni, semplice nella struttura ed originale nella costruzione.

Non può essere semplicemente perché si cercano sprazzi di bellezza e non dei cappelli da mettere in testa per psicanalizzarci e scrivere due righe per riempire un’altra mezza pagina di giornale.

Un’anomalia genetica

Il lato positivo nell’avere una manualità praticamente impedita è essere circondato da chi è in grado di compensare questo deficit e moltiplicarlo per dieci.

A me il ruolo di raccogliere le idee.