La mia lingua, frenata

Non riuscivo a capire cosa mi trattenesse in quei pochi secondi dal pronunciare quelle poche parole, a dire semplicemente “Pronto”, la mia lingua che sembrava frenata da quella voce che non riconoscevo più, dimenticata com’era da milioni di altre, che in questi anni si erano sovrapposte ad essa. Era forse l’emozione per una pagina che si riapriva, che ridiventava contemporanea, che veniva a farmi visita, dopo esser stata parte fondamentale di una vita precedente. Di fatto, non la riconoscevo.

Il suo profilo su facebook, sul quale avevo sbirciato, era incompleto, nessuna foto, nessun’altra indicazione, potevano aiutarmi a riprendere contatto in maniera meno imprudente. Soltanto una data di nascita per farmi capire la sua età adesso, e farmi comprendere solo oggi, quanto era giovane allora, quando lo guardavo e cercavo da lui un aiuto, una parola, una guida.
In quegli istanti di silenzio, in quel vuoto, mi sono trovato a riempire quegli anni di silenzio, a ricercare un appiglio che mi riconducesse all’ultimo momento in cui ci siamo sentiti, che mi servisse a capire che era davvero lui a parlarmi all’altro capo del telefono. Non l’ho trovato, nient’affatto, ma occorreva andare avanti.

“Pronto, sei tu?” “Ciao, Mauro, si certo che sono io”

E da li il diluvio su di me.
Sono passati poco più di dieci anni, dieci anni, dall’ultimo momento che ci siamo visti. Sono passato più d’una volta davanti casa sua senza ricordarmi il numero civico, e più d’una volta mi sono ripromesso di fermarmi, posteggiare, in quella strada cosi affollata, incasinata, e girare uno per uno i portoni, fino a trovare quel cognome. Mai fatto, sempre rimandato, chissà poi perchè.
In effetti non avevo dimenticato quanto fosse stato importante averlo avuto al fianco, in quel momento, quando l’insicurezza dell’adolescenza tocca i suoi picchi, quando la timidezza della mia infanzia sembrava insuperabile, avere lui accanto a dire la parola giusta per stimolarmi, spingermi oltre il burrone, tirarmi in mezzo al cerchio, darmi il giusto carico di responsabilità.

C’è stato molto di mezzo tra quell’ieri e quest’oggi. Ho bene in mente come la rottura, lentamente sia avvenuta, come si sia rotta la magia di quegli anni, con piccoli strattoni, con le disgrazie che la vita ti nasconde e che, inesorabilmente, ti cambiano.
D’un tratto è sparito tutto. Ho cambiato frequentazioni, ho cambiato zona, ho cambiato abitudini, e di tutto quello che era stato rimaneva ben poco.
Era una perdita, per come la vivevo allora, una sconfitta. Una svolta, totale.
Si è trasformata poi in un attimo di bellezza probabilmente irripetibile, che tanto dovrebbe dirmi sulla paura di cambiare che in questi giorni mi prende.
C’è stato da quel punto li, però, un prima ed un dopo. A legarli è stato l’impegno che mi sarei assunto di li in avanti, e mi sono trovato a pensare spesso, in quei momenti, che molto di quello che davo era l’immagine di ciò che era stato lui per me. Per quanto sia stato buono il mio lavoro, in quegli anni, era il frutto di ciò che lui aveva seminato, e che si stava perdendo.
Ci siamo incontrati adesso, in una vita ancora diversa, per uno strano gioco del destino, e chissà perchè.
Un prete, Don Cesare, che non ho mai conosciuto, a legare quest’assenza.
Adesso che sta di nuovo tutto per cambiare, l’ho ritrovato.
Il mio capo Reparto.

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