Il momento nel quale, qualche settimana dopo essere tornato dalle vacanze, ritrovi in fondo allo zaino qualche conchiglia, un sassolino, e tutto ti riporta lì.
Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti arrivederci fratello mare mi porto un po’ della tua ghiaia un po’ del tuo sale azzurro un po’ della tua infinità e un pochino della tua luce e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose sul tuo destino mare eccoci con un po’ più di speranza eccoci con un po’ più di saggezza e ce ne andiamo come siamo venuti arrivederci fratello mare.
L’ultimo tratto degli Appennini, prima di inabissarsi nel mare a Marettimo, percorre la dorsale tirrenica della Sicilia, creando i Nebrodi ed infine le Madonie. Territori, fortunatamente, tra i meno frequentati dal turismo di massa, nei quali dal mare si risale velocemente verso costoni impervi.
Territori a volte dimenticati, spopolati, nei quali la fauna sta velocemente riprendendo ciò che probabilmente la mano dell’uomo aveva tolto. Nei quali le volpi raggiungono la porta di casa, e cinghiali si incontrano appena ci si muove su strade poco battute.
Uscendo di casa per provare a correre è inevitabile prendere le strade che portano su strade in salita, abbandonando le litorenee troppo frequentate dalle macchine e da turisti in cerca della propria spiaggia libera preferita. I paesi sono tutti arroccati alle cime più alte che puoi scorgere nei dintorni, a dominare territori troppo vasti se non riesci a godere di una vista che dal mare possa raggiungere ogni valle che li circonda.
Ma le montagne più alte, le ho sempre guardate da lontano. Troppo alte, e disabitate. Nessun paese sulla loro sommità, si alzano alle spalle di Castelbuono e Geraci, ed i colori abbandonano il verde intenso per guadagnare quello delle pietre e della terra. Frequentate pochissimo anche dai madoniti, gente si di montagna ma che si muove su quel territorio più per bisogno che per diletto, e che di certo non perde tempo a camminare per strade poco battute nelle quali non si possa raccogliere del finocchietto selvatico o dei buoni funghi.
È il massiccio del Carbonara, non poco distanza da Pizzo Carbonara, la seconda montagna più alta di Sicilia, con i suoi 1979 metri, e quest’anno ho finalmente visto da vicino quel punto che era solo il confine del mio occhio di bambino, quando dalle case di campagna mi guardavo intorno cercando domande. Una guida, uno di quelli che corre sul serio e che definisce quelle strade il suo parco giochi personale, territorio dei suoi allenamenti, mi ha portato a fare un giro, partendo da San Guglielmo, su fino a Cozzo Luminario, poi ancora più in su, per poi tornare a valle da Piano Pomo con i suoi agrifogli giganti fino a Piano Sempria.
Incrociando sulla nostra strada un numero impressionante di cinghiali e daini, e persino uno appena nato. Con poiane e falchi ad accompagnare dall’alto la nostra corsa, mentre il nostro sguardo si spingeva dall’Etna al promontorio di Mongerbino, nei pressi di Palermo.
Di Mango ricordavo le giacché oversize nei Sanremo annoiati di Pippo Baudo, quelli che cercavamo di evitare e che adesso vengono beatificati, il questo culto perenne per la nostalgia.
Ma di Mango, tornando a lui, non mi piaceva nulla, mi suonava come un suono antico, con quella sua voce cantilenante e quasi eterea.
Quest’estate, nella quale mi sono preso il tempo per maneggiare con continuità posti dai quali cerco di allontanare il pensiero il piu possibile, per non diventare vittima della malinconia, la voce di Mango é stata una riscoperta e una colonna sonora, la compagnia perfetta per certi paesaggi e sensazioni.
Canzoni come Mediterraneo, sono poi, perfette in questo senso, anche grazie alle parole di Mogol.
É il mediterraneo, nella sua essenza, il Sud.
La montagna là / e la strada che piano vien giù
tra i pini e il sole / un paese
Mediterraneo da scoprire
con le chiese
Mediterraneo da pregare
Siedi qui / e getta lo sguardo giù
tra gli ulivi / l’acqua è scura quasi blu
e laggiù / vola un falco laggiù
sembra guardi noi / fermi così
grandi come mai
Guarda là / quella nuvola che va
vola già / dentro nell’eternità
Quella lunga scia / della gente in silenzio per via
Non so se potrei definirmi animista, se gli oggetti contengano un anima o hanno soltanto un potere evocativo, portando con se un ricordo o una sensazione vissuta. Cosí, ridare vita a delle vecchie tavole di castagno, abbandonate in un angolo da cinquant’anni o forse più, e portarle adesso a una vita nuova, in una nuova casa, é come creare un ponte con un mondo antico e con quell’uomo che quelle tavole lavoró la prima volta. Mio padre.
Avrò visitato davvero abbastanza paesi, si chiede il viaggiatore competitivo e che, come in una giornata di lavoro, valuta le sue performance anche durante le vacanze.
Sui socialini vari é tutto un fiorire di classifiche dei posti da visitare nel 20xx, la lista di quelli che hai già visto, nei negozi di cianfrusaglie varie, di cartine geografiche dalle quali grattar via i luoghi già visti.
Il viaggio diventa quindi un’esperienza orizzontale, sulla quale surfare, in attesa della prossima onda. E non sto arrivando a dire che surfare sia brutto, anzi. Viaggiare per vedere, anche solo per qualche giorno, un luogo nuovo, soprattutto se molto diverso da ciò che conosci, é rigenerante, é utile, persino.
Ma se c’è una cosa che ho capito, é che non serve a niente accumulare. Il famelico desiderio di afferrare tutto, che ha sempre fatto parte di me, ha cominciato a lasciare spazio al desiderio di scendere in profondità. Se potessi viaggiare davvero, vorrei poter stare in un luogo almeno qualche mese, soltanto così potrei aver pensato di capire almeno qualcosa di quel luogo.
Ho bisogno di tempo, per assaporare qualcosa. Ed allora va bene, anche visitare ogni anno lo stesso luogo, ed ogni anno scoprire qualcosa che ancora non conoscevi, incontrare gli stessi volti e salutarti, saper qualcosa delle loro vite che vada oltre l’incontro fortuito per una settimana o per un’ora. Saper dove comprare il pane e dove il pesce. Nel quale aver il tempo per annoiarti e star anche fermo per un po’.
É così che il viaggio perfetto diventa quello verticale, in profondità. O almeno questo é ciò che penso.
Zorba viveva la vita come pura emanazione della libertà di spirito, senza sovrastrutture di pensiero nel cercarne scopo o significato. Amava quando voleva, suonava quando lo desiderava, lavorava fino a sfinirsi. Aveva vissuto molte vite, Zorba. Girava il mondo come se fosse alla ricerca di qualcosa, senza rendersene conto, o forse solo per necessita. Un essere primitivo, per certi versi, ma che sembrava aver colto a pieno l’essenza della vita, il suo significato più profondo dell’esser priva di scopo.
“Zorba, credo, ma potrei anche sbagliarmi, che gli uomini siano di tre specie: quelli che hanno come meta di vivere, come dicono, la loro vita; di mangiare, bere, amare, diventare ricchi, coprirsi di gloria… Poi ci sono quelli che hanno come scopo non la propria vita, ma la vita di tutti gli uomini; sentono che tutti gli esseri umani sono una cosa sola e si sforzano di illuminare il piú possibile gli uomini, di amarli, di fare loro del bene. E infine ci sono quelli che hanno come obiettivo quello di vivere la vita dell’universo. Tutti, uomini, animali, piante, stelle, siamo una cosa sola, la stessa sostanza che combatte la stessa terribile lotta. Quale lotta? Trasformare la materia in spirito”.
E Zorba, il libro, é la storia dell’incontro tra chi la vita la pensa, e cerca significato nella filosofia e nei libri, e quest’uomo mitologico e volitivo. Uomini che intrecciano le proprie vite, in un’isola greca per un breve tratto della loro vita, creando un amicizia che trae spunto da questo contrasto, dal quale emerge chiaramente che la vita non va solo pensata ma vissuta col corpo intero, con ogni membra, per assaporarne ciò che é.
Zorba si offese; alzò la voce: “Nuova strada”, gridò, “nuovi progetti, ho smesso di ricordare le cose passate, ho smesso di chiedere quelle future; quello che succede ora, in questo momento, è ciò che m’interessa. Dico: ‘Che fai adesso, Zorba?’. ‘Dormo’. ‘Allora dormi bene!’. ‘Che fai adesso, Zorba?’. ‘Lavoro’. ‘Allora lavora bene!’. ‘Che fai adesso, Zorba?’. ‘Abbraccio una donna’. ‘Allora abbracciala bene, Zorba, dimentica tutto il resto, non esiste nient’altro al mondo, solo lei e tu, vai!’”
Amo sempre come una storia ti porti a scoprire connessioni e collegamenti con altre storie, in un filo che tutto tiene insieme.
Qualche sera fa ho recuperato un film, che mi aveva incuriosito quando uscí al cinema, ma che poi persi, come spesso capita in questi anni.
Il film, Stranizza d’amuri, per certi versi non mi ha conquistato, forse per le pretese poetiche non del tutto riuscite, ma la storia é senz’altro capace di toccare corde profonde. É la storia di due ragazzi, Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, trovati morti ammazzati e abbracciati uno all’altro sotto un albero di limone, perché amanti, nella Sicilia del 1980.
É una storia che parla di cosa significava essere gay allora, ma parla anche, di quanto fosse importante, soprattutto allora, difendere il “buon nome” della famiglia, non far parlare la gente, non ostentare la propria diversità per nascondersi nella massa. Sono discorsi che risuonano in chi, come me, ha vissuto ampiamente la vita di paese, con quegli occhi sempre presenti, ad osservarti, anche quando pensi di essere solo.
I risvolti, e la storia del reato, sono incredibili, ed invito ad ascoltare la puntata di Altre Indagini di Stefano Nazzi.
Ciò che però scaturí da quel duplice delitto segnó una parte della storia d’Italia, ed é quel tratto di filo che ho riannodato, e che non conoscevo, come credo in tanti. Perché quel delitto smosse le coscienze di molti, creó manifestazioni di massa, a cui parteciparono dei giovanissimi Nichi Vendola e Francesco Rutelli, e portarono alla creazione dell’Arcigay.
E sembra incredibile non sapere, nonostante la mia curiosità, che quel primo battito di associazionismo prese il via proprio da Palermo, dove nacque il primo circolo Arcigay, il Neo, per dare spazio e rifugio a chi non lo aveva. La storia di due dei suoi fondatori, Massimo Milani e Gino Campanella, l’avevo incrociata qualche mese fa su Instagram(chi dice che non serve a nulla, sottovaluta le possibilita per chi ha coscienza) nell’occasione della morte di Massimo Milani, e sono sicuro che aprirà altre porte.
Il problema é non conoscere la misura e voler prendere tutto di ciò che può capitare. Per cui eccomi in macchina alle tre di notte in direzione Val Formazza, oltre il Lago Maggiore, al confine con la Svizzera. Una levataccia che sa di follia, ma siamo in zona gara già alle cinque e trenta, con ampio tempo per un caffè con nuovi amici che ci aspettano con i nostri pettorali.
Il cielo é ancora nuvoloso, ma le previsioni sembrano positive, alla partenza.
La gara é davvero impegnativa, con una prima salita al Passo del Nefelgiù, a 2600 metri di altitudine, per poi scendere giù alla diga dei Sabbioni per poi risalire, in una infinita scalata fino ai 3000 metri del rifugio 3A. In poco piu di 25 chilometri l’intero dislivello, di 2487 metri é percorso. Da lì, si pensa, basterà scendere. Senonché sul versante nord la neve é ancora tanta, e per un chilometro o forse piu ci troviamo a scivolare, culo in terra, o in posa da pattinatori, tra neve ancora spessa, mentre un gruppo di stambecchi incrocia il nostro passaggio. Finita la neve, probabilmente per me comincia il peggio. Ogni gradino, ogni salto, in una discesa molto tecnica é una morsa per la mia schiena dolorante, per cui mi trovo a rallentare.
Il percorso fino all’arrivo sembra non finire mai, tanto piu che il morale é scivolato giù molto piu velocemente di quanto possa fare io col mio passo. La corsa, piu che misurare le proprie capacità, fa conoscere la propria finitezza e la consapevolezza di ciò che si é, in quel momento. Ogni concorrente che ti supera é una sconfitta, e almeno un arretramento rispetto alle aspettative, ed é questo molto di ciò che imparo correndo.
Termino dopo 8 ore e 42, anche piu del tempo impiegato alla Lavaredo percorrendo 8 chilometri in più.
Ma ciò che piu conta é ciò che ho visto oggi, in una zona che non conoscevo e in cui spero di tornare.
E ciò che ho imparato.
A casa mi aspetta una pizza calda e una lunga dormita. O almeno così spero.
Quando la temperatura sale e l’asfalto ribolle anche chi corre in pianura cerca rifugio nelle montagne, cominciando a giocare a quello che viene chiamato trail, il cugino punk del podismo su strada.
Lì dove i tempi smettono di essere così importanti, l’ossessione del best viene dimenticata, e si vive una dimensione più libera della corsa, tra salite e discese più o meno complicate. Le distanze si allungano verso l’infinito e diventa comune incontrare quella specie di stoico moderno rappresentato dall’ultra maratoneta, colui che non conosce la fatica ed il concetto di fine.
Dopo qualche esperienza in questi anni su distanze più corte, dopo l’esperienza del Passatore, ho quindi così deciso di spendermi su distanze da ultra anche sul trail, partendo dai 50 Km, spinto da un invito arrivato una sera via whatsapp che credevo non avrebbe avuto seguito. La Lavaredo Ultra trail è infatti una delle gare più famose al mondo, e la partecipazione è dettata dalla sorte. Si passa infatti per una lotteria e non è raro aspettare anni prima di poter correre su queste strade. La fortuna può arrivare anche dall’estrazione di un compagno di squadra, per cui, in qualche modo, mi sono ritrovato con l’iscrizione già confermata ad inizio anno.
Correre nello scenario delle Dolomiti, che fino a quel momento conoscevo veramente poco, è stata un’esperienza, inutile dirlo, stupefacente. La fatica è andata di pari passo allo stupore nel trovarmi circondato da anfiteatri naturali di montagne, tra le più belle che abbia mai visto.
Ho raccolto, per quel che ho potuto, qualche immagine, e ho provato a montarle in un piccolo video, che spero restituisca qualcosa di ciò di cui ho goduto.
Leggevo qualche giorno fa che correre una maratona danneggia il cervello, almeno per qualche mese.
Forse per questo bisognerebbe evitare di prendere decisioni un po’ folli in quel periodo, come ho fatto quando ho deciso di iscrivermi al Passatore.
Il Passatore è sicuramente la più nota ultramaratona su strada che si tiene in Italia, su un tragitto che parte dal Duomo di Firenze per giungere a Faenza, in un percorso di cento chilometri che attraversa l’Appennino. Il suo nome deriva da una figura mitica del Passator Cortese, un brigante vissuto nel’800, e mitizzato come una sorta di ladro gentiluomo, una sorta di Robin Hood della zona.
Il Passatore ci accoglie al ritiro pettorali
Mi sono lanciato quindi in una sfida che supera di gran lunga quanto finora ho fatto, portandomi in un territorio sconosciuto, del quale non conoscevo contorni e sensazioni.
Se una volta, correre una maratona mi sembrava un qualcosa di assurdo, la preparazione a questa corsa prevedeva 40 km quasi ogni domenica, se non di più. É stato un percorso impegnativo e logorante, anche per chi mi stava intorno, e mi consentiva di trovare questo tempo per gli allenamenti.
Ad ogni modo, una volta presa la decisione di partecipare, non é più tempo per tirarsi indietro. Così eccoci il 24 maggio sul treno che ci porterà a Firenze. Lunga fila per il ritiro pettorali, una pasta fredda per caricarci ulteriormente di carboidrati, ed alle 15 siamo pronti per la partenza sotto la cupola del Brunelleschi.
Erano giovani e forti…
La strada sale fin da subito verso Fiesole, ed il pensiero va a quella trattoria dove un giorno, festeggiando una laurea, mangiai la prima fiorentina degna di questo nome. Ma non è ancora il tempo per le crisi di fame, e la strada è ancora lunga. Le strade e i primi paesi accolgono noi corridori con un’atmosfera da festa di paese, e tutto prosegue più o meno nella normalità fino a Borgo San Lorenzo, quando comincia la lunga salita che porta verso il passo della Colla. Inizialmente corribile, si fa intensa soprattutto negli ultimi dieci kilometri, nei quali comincio a camminare. Prendo l’ultimo gel, sento le caviglie che non si piegano come dovrebbero, i talloni che sbattono a terra più del dovuto, ed ogni volta che tento di correre smetto subito dopo.
A qualche chilometro dalla vetta la nausea mi attanaglia, ma voglio assolutamente raggiungere la vetta. É ancora giorno, e penso che sia già un buon risultato essere lassù con questa luce, almeno da ciò che ricordo dei racconti chi l’ha già vissuta.
Sono alla Colla in 5 ore e 50 minuti e finalmente comincia la discesa, nella quale spero di recuperare un po’ di mobilità. In effetti è ció che succede. Il cielo comincia ad adombrarsi e tra gli alberi del bosco cominciano a vedersi le prime stelle. Oramai qui é solo silenzio, passi di noi corridori, e la valle che si apre intorno a noi.
Ho solo un pensiero, quando arriviamo al sessantesimo chilometro, e voglio togliermelo dalla testa in ogni modo. Mancano ancora quaranta chilometri, cazzo. Cerco di pensare ad altro, ma la mente continua a tornare sempre lì. Mi do obiettivi intermedi, penso a qualsiasi cosa, ma poi sono sempre lì, mancano ancora 35, 34 e poi 30.
Fin quando all’ennesimo ristoro non mi sento chiamare. É Ale, mio fratello, vicino ad un ambulanza. In crisi. Mi fermo con lui. Siamo oltre il settantesimo chilometro. Restiamo fermi per un po’ in un bar. The caldo, vomito e limonata. Cosa fare? Fermarsi o ripartire?
Tenendo inascoltati i consigli di chi è lì con noi, tentiamo di ripartire. Ma non va. Cerco di tenere il ritmo io, che normalmente corro sempre alle sue spalle, ma non riesce ad andare avanti.
Così non ha senso continuare. Raggiungiamo l’ennesimo ristoro, e finisce la nostra gara. Di chilometri ne abbiam percorsi 77. Non me la sento di lasciarlo in queste condizioni.
Avrei potuto forse continuare, ma la verità é che vedere lui fermarsi é stata probabilmente una liberazione anche per me. Come sempre, la competizione fraterna, sarebbe stata uno stimolo per continuare, e se probabilmente non avessi incontrato lui in crisi, non avrei mollato anche io.
Ad ogni modo non ho rimpianti, sono stranamente appagato in ogni caso. Ho misurato ciò di cui sono capace, sono andato oltre a ciò che conoscevo, e ho imparato qualcosa.
Probabilmente non sono pronto per queste distanze, ed in questo momento, così come quando correvo, non comprendo ancora a pieno la bellezza del correre distanze così lunghe.
Forse le ultramaratone non fanno per me, oppure il tarlo di questo parziale fallimento mi scaverá dentro fino a farmi riprovare quest’avventura.
Le cose che dovrò ricordare, in tal caso, saranno queste:
Porta con te sempre una giacca antivento, una maglia termica e dei guanti
Bevi tanto, anche più del dovuto, per non ritrovarti con una cistite nel bel mezzo della gara