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A chi pagare la cauzione?

La libertà é un contratto abusato.

Chiunque vorrebbe essere libero, ma la libertà può essere un baratro. Puoi caderci dentro senza essere più in grado di rialzarti o, ancora, puoi perderti. Molto meglio essere indirizzati, avere qualcuno che ti dica dove andare, cosa fare da quando sei sveglio fino al momento di andare a letto.

La libertà richiede consapevolezza. E un uomo, se consapevole dovrebbe pretendere libertà.

Ecco, se penso al mondo del lavoro, ma anche alla società in cui siamo inseriti, si ha la sensazione di essere trattati come bambini. Bambini da indirizzare, da gestire. La retorica della libertà si scontra con una realtà in cui il controllo delle azioni di ogni individuo è la costante.

Il dipendente deve timbrare il cartellino, deve uscire ad una certa ora, chiedere il permesso per andare dal dentista o accompagnare proprio figlio a scuola. Deve pranzare dalle 13 alle 14 e stare non più di cinque minuti a parlare con un collega alla macchinetta del caffè.

Forse è giusto così. Come detto prima, la libertà senza consapevolezza, può generare caos nell’individuo e nella società di cui è parte.

Ma allora, di cosa stiamo parlando quando parliamo di libertà? E cosa dovrebbe fare un uomo per guadagnare la semplice libertà di gestire il proprio tempo?

A quale sceriffo pagare la propria cauzione?

B-side

Giza, ed un set per le strade di Alessandria, qui, ض

Tutti su al Polo Nord

C’è solo una cosa che non cambia a qualunque latitudine mi trovi a lavorare. C’è sempre qualcuno del gruppo, o anche più di uno che prende a dire che questi qui non sanno lavorare, che questi si che sono dei caproni, che qui è tutto un mondo alla rovescia. E’ una caratteristica che naturalmente vale solo muovendosi verso sud. Se sei a Roma sono peracottai quelli lì, se sei a Frosinone sono i napoletani a fare solo della gran caciara ed è sempre meglio non fidarsi, sei in Egitto e allora sono dei cammelli pure loro, e via via fino ad arrivare in Nigeria, come l’anno scorso di questi tempi. Io, in questi casi, non so che fare. Provo a fare il politically correct e a cercare di mitigare le loro posizioni ma poi mi accorgo che è tempo perso e dopo qualche tentativo mi cadono le braccia. Non ho gli anticorpi per mettermi a controbattere continuamente, o a fare sermoni. Poi, raggiunti i trentanni è praticamente impossibile cambiare idea, ti arrocchi nelle tue posizioni senza che nessuno ti possa smuovere. Ci si prova, ma chi non vuol capire non capirà, e più che altro, di questi tempi, non se ne vergognerà nemmeno.

Sintomatico mistero

C’è un fenomeno che deve essere immediatamente debellato. Orde di giovani stanno invadendo le fotogallery dei socialcosi con immagini di uomini e donne dagli occhi semisocchiusi. Non che il fenomeno non fosse diffuso prima che l’onda di feisbuk travolgesse le nostre esistenze, se è vero come lo è che già sei o sette anni fa ne avevamo preso a discutere con interesse scientifico con qualche amico, tanto che in qualche archivio fotografico potrei anche trovare tracce di questa fase decisamente cool delle nostre vite.

Ma adesso la deriva è stata travolgente, e ancora non capisco quando questo vezzo sia diventato sinonimo di qualche tipo di figaggine a me ignota, quando abbiamo cominciato a pensare che quello sguardo lì potesse renderci simili a modelli da passerella. Ci pensavo guardando queste immagini qui, al chirurgo plastico che si ritrae in queste pose, e lo ripeto. Smettiamola, per l’amor del cielo.

Segni sul vetro

Chi è che non starebbe davanti alla finestra a scrivere sui vetri frasi senza senso, di una poesia imbarazzante, solo per vedere quanto tempo poi ci mette a sparire, o se poi resta lì anche quando la pioggia è finita,

la condensa sparita, segno di un momento che sembrava finito, ed invece, eccolo lì.

Un film in due minuti/127 ore

La classica situazione nella quale avresti bisogno di una mano.
Voto 7/10.

Cos’è una bandiera?

Qualche mese mi sono ricordato della bandiera verde bianca e rossa riposta in un cassetto palermitano, e mi sono detto che forse era il caso di rispolverarla anche fuori dai mondiali.
Non ho mai attribuito particolare valore all’essere Italiano, non ho mai ritenuto questa caratteristica un motivo di vanto o di orgoglio particolare, e non ho mai capito come possa esserlo qualcosa in cui non posso aver avuto modo di agire.
Se però penso di eliminare da me questa radice, penso che mi ritroverei a cercare la metà di ciò che sono. Mi metterei a cercare ciò che mi fa incazzare, ciò che penso sia giusto difendere, tutto quello che ricordo di amare da star male.
E forse per questo che non ho mai pensato di andar via. L’idea più blaterata a vanvera che realmente realizzata per cui vivere altrove possa essere la panacea da ogni male non mi è mai appartenuta. Sarei andato via, certo, se anch’io non avessi avuto alternative. Ma è andata così, almeno finora.
Epperò mi sono ritrovato a vivere in Lombardia, per di più in questi tempi strani in cui è necessario rivendicare ciò che ritenevi scolpito nella roccia. E così anche ad uno come me è sembrato necessario uscire fuori di casa una sera, appena tornato da lavoro, e piantare su un muro esterno quella bandiera.
Il mattino successivo, il mio coinquilino, ignaro, è rientrato in casa, dopo averla vista, ad abbracciarmi.
Abbiamo idee molto diverse, io e lui. Ma, appunto, anche a lui è sembrato un gesto dovuto. Mettere in mostra la propria identità, raccontare a chi passa di lì, qualcosa di ciò che pensiamo.
E’ stato per mostrare un appartenenza? Non credo. Più ci penso e più mi ritrovo a dirmi di aver fatto così un gesto di sfida, di contrapposizione con il leghista, con l’indifferente, con il menefreghista che lo vedrà.
Un simbolo, che non è mai soltanto un simbolo, per mostrare, in maniera sbrigativa, il nostro non accettare molto di ciò che accade.
E allora mi chiedo se sia giusto che una bandiera diventi questo, e mi sono chiesto poi cosa rappresenti realmente quella bandiera.
Sto ancora cercando una risposta.

Piccolo mondo

Padre e figlio

Una mattina, quest’inverno, sono andato a passeggiare vicino al mare, lasciando la provinciale appena fuori da Palermo. Avevo poco tempo, sono rimasto li per ore. Mi muovevo ad un’altra velocità. Non potevo correre in un elogio alla lentezza.

Una vita in fuga, lungolinea

Ingannando l’attesa, tra un concerto dei Virginiana Miller ed il primo Aprile.

La casa sul fiume