All’incontrario va

Vi ascolto. Non posso farne a meno. Metto da parte le mie letture, ed infilo le cuffie per nascondere la curiosità che dal primo minuto avete conquistato.
Immagino però che l’abbiate capito anche voi, ma non ve ne importa.
Il flusso delle vostre parole non ha cura di un compagno di viaggio particolarmente indiscreto. Alzo gli occhi di tanto in tanto per guardare i vostri volti.
Sembrate per caso capitati su questo vagone di seconda classe di un regionale, il vostro aspetto distinto tradisce una certa agiatezza non troppo ostentata. Potreste essere marito e moglie, tanta è il fastidio con cui lei inizialmente accoglie sul suo viso truccato le parole di lui. Una coppia stanca, magari, dopo una vita intera, ma così non è. E’ chiaro.
Dalla bocca dell’uomo è un fluire dei ricordi inarrestabile, che sembra voler scavare indietro d’un secolo. Sembra una perla, rara come la voglia degli uomini anziani di parlare senza la durezza che la vita ha loro assegnato.
Le sue parole, dolci, invece, escono con difficoltà dalla sua bocca, le vedo costruirsi lentamente nel rimuginare delle sue labbra fino a quando non vengono sputate fuori senza condizione di discontinuità. E’ un uomo forte ancora adesso, lo si vede, così rimango stupito nell’accogliere l’informazione sul suo anno di nascita, 1928.
Le sue parole non nascondono un’insicurezza che non smette di far notare alla sua interlocutrice, a questo punto anche a me, sottolineando piuttosto degli imprecisati problemi che fino in fondo non ha mai risolto.
Ah, se solo avessi avuto un’educazione diversa, probabilmente non sarei così“, si lascia sfuggire raccontando la sua infanzia napoletana.
Dei genitori rigidi, come lo si era una volta.
E poi lui, il fratello e le due cugine, quasi due sorelle. Figlie di uno zio a cui tutti avevano voltato le spalle, dopo il matrimonio con una sua dipendente, uno scandalo mai accettato in famiglia.
Uno zio silenzioso e misterioso. Che però lasciava trapelare un certo affetto per lui, coraggioso al punto da non lasciarsi sfuggire una lacrima neppure dopo esser rimasto incastrato con la mano nella portiera di una macchina.
Uno zio strano, additato persino come antifascista. Come suo nonno, forse, un rivoluzionario, osa dire, ricordando la scoperta, con il fratello, in un armadio, di un vecchio vestito da garibaldino.
I racconti si spostano velocemente lungo quegli anni, mentre lei, la testa appoggiata al vetro, accarezza la catenina d’oro, annuendo di tanto in tanto. A volte, le storie che percorre sembrano incrociarsi con i sogni, quei sogni così ricorrenti da prendere la forma dei ricordi.
Come l’incontro con Nuvolari, che a lui sembrava enorme tanto lui era piccolo, nell’officina del paese. Una tuta lucente, e quella cerniera lunghissima che lasciava poi aprirsi al collo, insieme al bavero che ne dava un tono fiero. E la sua macchina, un Alfa rossa bellissima, che racconta con quella “istrascicata come a riprodurre lo stupore di quel momento, fino all’apoteosi della mano del campione che si pone sulla sua testa e chiede “Cosa fai, piccolo?“. E lui muto, niente, silenzioso, timido, che non sa cosa rispondere, se non uno strascicato “Nulla signore, stavo guardandola“.
E io sto lì, sfogliando distrattamente una rivista, di fronte a loro.
Scopro molte cose, dettagli infinitesimali che costruiscono i percorsi delle loro vite, e dei giorni appena trascorsi in Liguria.
Sono davvero lì per caso, dopo aver perso il treno per il quale avevano prenotato. E l’hanno perso dopo qualche bicchiere di troppo, che lui comunque ritiene di aver retto bene, in un parere che non collima con quello della sua compagna di viaggio. Che da allora si diverte a stuzzicarlo, ribadendo quanto abbia cercato di fermarlo più volte nei suoi tentativi di adescamento della cameriera, alla quale avrà ordinato parecchi caffè.
Lui, d’altro canto reagisce con un rossore istintivo, timoroso degli atteggiamenti che non ricorda affatto, e per il quale nutre il pudore nell’essere stato possibilmente sconveniente. E si contorce in questo timore allo stesso modo di prima, quando vagava tra i ricordi, questa volta però nel timore di una gaffe spinta dall’eccessiva loquacità che il vino potrebbe aver evidenziato ulteriormente.
Sembra passato velocemente, un viaggio di questo tipo, e potrebbe durare una giornata intera, senza sentire il peso.
Un incontro di una bellezza rara, che nei treni sembra però sempre possibile, probabilmente per quella possibilità di trovarti seduto dinnanzi ad uno sconosciuto, per minuti, ore, con la possibilità di conoscere, o soltanto di sbirciare quel poco che gli altri ti lasciano vedere.


E soltanto per una fortuita coincidenza la sera prima Dalla e De Gregori mi abbiano cantato di Nuvolari, in una piazza genovese.

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