Siamo poi gente che ha bisogno di vittorie, o meglio, siamo un popolo che ha bisogno di vittorie, come direbbe Sofri nel suo libro. E così oggi è quasi un giorno di festa, con dei sorrisi che si aprono, in questa politica vissuta come un tifo da stadio, in cui un giorno così è un’occasione buona per indossare una polo rossa, anche se poi tutto è relativo, ed è ancora troppo presto. Ciò che importa e che per una volta le risposte su cui non riponevamo molte speranze, sono state smentite dalla realtà verso una direzione che non pensavamo di aspettarci, pessimisti come siamo diventati. Adesso, probabilmente, capiranno che non siamo poi gente su cui strategie da tea party possono funzionare, e che probabilmente l’antivirus verso certe grevità l’abbiamo già in noi, ed ogni tanto ce ne ricordiamo. Hanno perso in tanti, e farebbero bene ad accorgersene, ma loro, almeno abbasseranno i toni, comprensibilmente, e la Moratti si morderà le labbra su quella frase, a cui si è prestata, e che è anche solo il simbolo di una deriva evitata.
Pensavo a questo svegliandomi stamattina e controllando, con tocco scaramantico, che tutto fosse esattamente come ieri sera l’avevo lasciato. Aggiungendo questo a quei momenti di trascurabile felicità, come li definisce Francesco Piccolo in un libro letto poco tempo fa, e perso in qualche hotel poche pagine prima della fine. Ci pensavo constatando che, tra l’altro, quella domenica lì sarà si quei dei ballottaggi, ma anche quella della finale. Quella di coppa Italia, intendo.