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Catena mia, portami via.

A forza di rimandare pensavo che non sarebbe successo più. Sempre una causa a cui attribuire le colpe, le priorità a cui dare spazio, gli alibi a cui attribuire la scarsa motivazione. Eppure, era sempre lì, nella lista di quei buoni propositi a cui non sai mai se darai seguito, a cui releghi un piccolo spazio ad intervalli irregolari, ma di cui puntualmente te ne dimentichi. Uno di quei buoni propositi che di tanto dovresti provare a spuntare dalla lista che hai in testa e a cui non riesci neanche a dare un ordine.
Poi però, le occasioni, capitano, o le fai capitare. Qualche legame in meno (forse il più importante?), un gruppo di coinquilini già su quella strada, pronti ad attendermi, ed eccomi lì, su di lei, nera, con quel sellino bianco pronto ad accogliere le mie chiappe. Da Aprile, ne ha macinati almeno ottocento di chilometri, e neanche dei più semplici. Salite, perché la sofferenza della scalata è il vero pane, ed anche se le gambe non girano ancora ai giusti giri, resisti finché puoi, finché almeno la cima non è raggiunta, per poi liberare le gambe e la soddisfazione della meta raggiunta nelle lunghe discese. E’ un piacere fisico quello restituito da ogni goccia di sudore. Difficile da spiegare il piacere nel guardare quei cartelli dei chilometri che ti sfilano accanto molto lentamente mentre i polpacci soffrono. O la sensazione nel non riuscire, raggiunta la cima, a ricostruire nemmeno un pensiero fatto lungo quei chilometri, forse, semplicemente perché non eri in grado di farne uno, costretto com’era il tuo cervello a raccogliere le energie da ogni singolo angolo del corpo. Difficile da capire, probabilmente.
Ma una mente completamente svuotata è una buona ragione per auto imporsi la sofferenza, a dispetto di ogni birra bevuta e di ogni sigaretta fumata nelle sere precedenti, un buon modo per espiare le proprie colpe, per recuperare persino le forze. Questo pensi, tornando a casa, in macchina, aspettando la doccia e progettando la prossima salita.