Sulla meritocrazia

«La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la disuguaglianza…Eppure fino a tempi non recenti non abbiamo mai pensato di costruire una società interamente né prevalentemente meritocratica. Esercito, sport, scienza, scuola, erano ambiti tendenzialmente meritocratici, ma altre decisive sfere della vita erano rette da logiche diverse e qualche volta opposte. Nelle chiese, nella famiglia, nella cura, nella società civile, il criterio base non era il merito ma il bisogno, grande parola oggi dimenticata…La novità del nostro capitalismo è l’estensione della meritocrazia a ogni ambito della vita civile, la cui prima e più rilevante conseguenza è la legittimazione etica della disuguaglianza, che da male da combattere sta diventando un valore da difendere e promuovere. I passaggi sono tre: 1) si inizia con il considerare il talento un merito; 2) si continua riducendo i molti meriti delle persone solo a quelli più semplici e utili (chi vede oggi i meriti della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3) infine si remunerano diversamente i talenti-meriti amplificando le distanze tra le persone, dimenticando radicalmente il ruolo decisivo che il caso e la Provvidenza esercitano sui nostri talenti…I meriti e i talenti non sono merito nostro, se non in minima parte, una parte troppo infima per farne il muro maestro di una civiltà. Ecco perché un importante effetto collaterale di una cultura che interpreta i talenti come merito e non come dono è una drammatica carestia di gratitudine. Non capiamo allora l’aumento delle disuguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio l’avanzare indisturbato della teologia meritocratica. Come non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più visti come demeritevoli e non come sventurati. Se infatti il talento è merito, l’equivalenza demerito-colpa è immediata. E se i poveri sono colpevoli io non sento nessun dovere di aiuto».

Via Francesco Maggio

La meritocrazia sarà forse la religione del nostro tempo, ma di sicuro non è stata la religione a cui si è votata il nostro paese. Ad un certo punto é diventata centrale nella narrazione di qualche politico riformista, ma é stata puntualmente disatteso ogni tentativo di introdurre principi meritocratici nei luoghi di lavoro e nella politica stessa.

Eppure in questo periodo, in cui si cercano motivazioni al dilagare del populismo, anche questa é salita sul banco degli imputati.

La tesi: chi ha raggiunto qualche obiettivo senza contare su aiuti di sorta, senza fare parte di consorterie di potere, si sente automaticamente assolto, migliore degli altri. Può permettersi di guardare dall’alto chi é in difficoltà, trovando una giustificazione alle disuguaglianza, perché chi non ha, probabilmente non ha fatto abbastanza per meritarsi di meglio.

Farne una delle cause della situazione attuale mi pare avventato, ma é pur vero che da qui occorre partire per capire cosa non abbiamo sbagliato.

Abbiamo sbagliato a banalizzare, a prendere in giro chi non capiva, a ridicolizzare le voci che venivano fuori dalle chiacchere dei bar reali e virtuali.

A che serviva tutto questo, se non a farci sentire migliori?
In fondo avevamo lavori non all’altezza delle nostre aspettative, vite disordinate a quasi quarant’anni, ma potevamo comunque prendere in giro chi non capiva quello che a noi sembrava chiarissimo.

Sai che soddisfazione.

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