Un racconto attraverso il quale vengono fuori le caratteristiche migliori e peggiori di noi Siciliani, dalla voglia di emergere all’esigenza di ricorrere a piccoli o grandi compromessi che nel caso di Vincenzo ne consentiranno la sopravvivenza.
Un libro che voglio far conoscere, per il quale avrei potuto scrivere tanto, ma per il quale non avrei saputo trovare parole migliori di quelle usate in questa recensione di cui riporto uno stralcio:
Quest’uomo esiste. O meglio, è esistito.
“Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per dacere ammanciare.”
Una vita pregna di storie, quella di Rabito: da ragazzino è stato bracciante, poi è partito per il Piave, ha fatto la guerra D’Africa, è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto il minatore in Germania. Una vita il cui racconto diventa inconsapevole pretesto per tratteggiare gli eventi principali che hanno fatto la storia del Novecento: le due grandi guerre, l’avvento del fascismo, l’emigrazione. Una vita caratterizzata da una serie di furberie più o meno connesse al tentativo di sottrarsi a una povertà difficile da scrollarsi di dosso. Una vita di viaggi, dunque; spesso imposti. E un vita di ritorno. Il classico ritorno a casa, in terra di Sicilia, dove Rabito finisce per sposarsi e crescere tre figli. E poi l’incontro magico, imprevedibile e fruttuoso con una macchina da scrivere: una vecchia Olivetti dove, tra il 1968 e il 1975, il bracciante di Chiaramonte imprime i suoi ricordi con un (forse involontario) piglio tragicomico e un linguaggio indefinibile, che non è italiano e nemmeno siciliano; un linguaggio naturale che diventa lingua e trova nelle sue non-regole l’elemento vitale e fascinoso di una narrazione fuori dai canoni, ma sincera e avvincente. La narrazione di chi scrive perché ha qualcosa da dire (a prescindere da tutto e da tutti), che è diversa da quella di chi scrive per dire qualcosa. E Rabito di cose da dire ne aveva tante, che “se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare”. Ha ragione Andrea Camilleri a sostenere che dall’autobiografia di Rabito emergono « cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa»; e che siamo di fronte a «un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso.»
E’ davvero un libro che non si può non leggere. E dopo averlo letto continuare a desiderare di non averlo finito per continuare a conoscere l’epopea di quella famiglia. Sapere che fine avessero fatto i protagonisti di quel libro, i figli diventati nelle ultime pagine del libro degli uomini, per soddisfare quelle curiosità incontrollabili che nascono quando un libro ti entra nelle vene.
Scoprendo il sito del figlio Giovanni ho così ad esempio scoperto che quell’inquietudine che il padre racconta nel libro “Ciovanni pazzo che senevoleva antare a cirare litalia,
Intanto se ho acceso in voi una parte della mia curiosità potete trovare qui alcune pagine del libro.