Terra Matta

Ho da poco chiuso a stento le ultime pagine di Terra Matta, l’autobiografia di un semianalfabeta siciliano del secolo oramai trascorso. Uno di quegli uomini che vedi seduti nelle piazze dei nostri paesi con le mani grosse e rugose segnate dalla fatica di una vita passata a lottare per un’esistenza dignitosa, con il viso sorridente pronto a dispensarti una delle tante storie della sua esistenza. Vincenzo Rabito era uno di quelli li, ed è stato lui che giunto agli ultimi anni della sua vita decide di sfidare la sua estrema ignoranza scolastica per raccontare quelle che sono state le avventure incontrate fin dalla sua nascita. Attraverso questo suo racconto descritto in un siciliano inventato punto per punto ti trovi cosi a ripercorrere quella che è stata la storia d’Italia con un efficacia che nessun libro di storia finora mi ha dato.
Un racconto attraverso il quale vengono fuori le caratteristiche migliori e peggiori di noi Siciliani, dalla voglia di emergere all’esigenza di ricorrere a piccoli o grandi compromessi che nel caso di Vincenzo ne consentiranno la sopravvivenza.
Un libro che voglio far conoscere, per il quale avrei potuto scrivere tanto, ma per il quale non avrei saputo trovare parole migliori di quelle usate in questa recensione di cui riporto uno stralcio:

Immaginate un lavoratore manuale siciliano non molto colto che, dopo anni di sudore e una vita di stenti, peripezie, stratagemmi vari e improvvisate strategie di sopravvivenza, decide di sedersi e di raccontare. Di raccontarsi. Immaginate che quest’uomo sia un semianalfabeta, ma che l’esigenza narrativa è così forte, così pressante, che nemmeno la carenza linguistica può costituire una barriera insormontabile.
Quest’uomo esiste. O meglio, è esistito.
Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per dacere ammanciare.”

Una vita pregna di storie, quella di Rabito: da ragazzino è stato bracciante, poi è partito per il Piave, ha fatto la guerra D’Africa, è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto il minatore in Germania. Una vita il cui racconto diventa inconsapevole pretesto per tratteggiare gli eventi principali che hanno fatto la storia del Novecento: le due grandi guerre, l’avvento del fascismo, l’emigrazione. Una vita caratterizzata da una serie di furberie più o meno connesse al tentativo di sottrarsi a una povertà difficile da scrollarsi di dosso. Una vita di viaggi, dunque; spesso imposti. E un vita di ritorno. Il classico ritorno a casa, in terra di Sicilia, dove Rabito finisce per sposarsi e crescere tre figli. E poi l’incontro magico, imprevedibile e fruttuoso con una macchina da scrivere: una vecchia Olivetti dove, tra il 1968 e il 1975, il bracciante di Chiaramonte imprime i suoi ricordi con un (forse involontario) piglio tragicomico e un linguaggio indefinibile, che non è italiano e nemmeno siciliano; un linguaggio naturale che diventa lingua e trova nelle sue non-regole l’elemento vitale e fascinoso di una narrazione fuori dai canoni, ma sincera e avvincente. La narrazione di chi scrive perché ha qualcosa da dire (a prescindere da tutto e da tutti), che è diversa da quella di chi scrive per dire qualcosa. E Rabito di cose da dire ne aveva tante, che “se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare”.
Ha ragione Andrea Camilleri a sostenere che dall’autobiografia di Rabito emergono « cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa»; e che siamo di fronte a «un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso.»

E’ davvero un libro che non si può non leggere. E dopo averlo letto continuare a desiderare di non averlo finito per continuare a conoscere l’epopea di quella famiglia. Sapere che fine avessero fatto i protagonisti di quel libro, i figli diventati nelle ultime pagine del libro degli uomini, per soddisfare quelle curiosità incontrollabili che nascono quando un libro ti entra nelle vene.
Scoprendo il sito del figlio Giovanni ho così ad esempio scoperto che quell’inquietudine che il padre racconta nel libro “Ciovanni pazzo che senevoleva antare a cirare litalia, la Spagna, la Francia tutta con lauto stoppe”, lo ha reso uno scrittore che adesso vive in Australia e che avrei voluto contattare per soddisfare la mia voracità. Forse lo farò.
Intanto se ho acceso in voi una parte della mia curiosità potete trovare qui alcune pagine del libro.

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