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Perche’ scrivere?

In un tempo come il nostro in cui l’io è disgregato, frammentato, confuso, per ragioni culturali e relazionali, scrivere un diario è un modo in cui ci si concede la possibilità di non perdersi nel caos e non essere schiacciati dalla vita. La frammentazione o destrutturazione della cosiddetta «conversazione interiore», l’originaria capacità che abbiamo di dire «io», oggi ferisce a morte la crescita personale. La solidità della conversazione interiore è ciò che ci consente di diventare «soggetto» (ciò che sta sotto): l’io a fondamento di tutti gli io provvisori che indossiamo a motivo di ruoli e compiti. Senza l’io-soggetto ci dissolviamo, con grande sofferenza, nei centomila e nessun io che le circostanze della vita richiedono.

Alessandro D’Avenia sul Corriere

Greta Thunberg mi parla

E mi dice che devo trovare un antidoto alla mia disillusione.

È soltanto che a guardare il mondo con sguardo laterale sono finito a guardare tutti di sbieco. Non è un bel vivere, lo ammetto.

Il mio destino era l’estinzione. tu sei nato per confutarmi

Decidere di avere un figlio e crescerlo ha, per qualcuno come me, l’effetto salvifico di salvarti da un mucchio di stronzate con le quali riempire la tua vita.

E’ complicato, ti lascia poco tempo libero, persino mutila certe carriere, o le rende complicate. Ma la verità è che ti costringe a potare tutto ciò che è superfluo per dedicarti a ciò che davvero ti interessa.

Me lo ha ricordato un articolo che mi ero appuntato ancora prima che nascesse Tatà, e che ho riletto qualche giorno fa. Mi è sembrato perfetto per descrivere la condizione di noi piccoli borghesi occidentali.

Se hai superato trent’anni e ancora aspetti che le cose inizino ad assomigliare alle assurde promesse in cui hai creduto, quello di cui hai davvero bisogno non è altro tempo per continuare a ripetere gli stessi errori: è una scossa che ti porti a farne di nuovi. Abbiamo avuto le nostre occasioni, le abbiamo giocate; ne abbiamo avute altre, abbiamo giocato anche quelle. Intanto ci diventano bianchi i capelli, si ammalano i nostri genitori e neanche noi ci sentiamo tanto bene. È tempo di andare avanti. L’idea stessa della paternità è bastata a mettere ogni cosa in una luce diversa, a relativizzarla. Mi ha regalato un momento di lucidità nel quale ho realizzato che nulla di quello che stiamo aspettando arriverà mai: è stata una rivelazione, una piccola apocalisse. Se l’alternativa alla paternità doveva essere il miraggio di una giovinezza eterna, deformata come il tatuaggio sulla pelle di un vecchio, allora io ho preferito fare ilbeau geste di rifiutare questo ricatto orchestrato dal mio Ego. Per uscire dalla sua trappola mi restava soltanto una soluzione estrema, ovveromettere al mondo qualcuno di più importante di me.

Catch 22

In uno delle più deliranti discussioni intorno alla politica italiana ho scoperto che E’ colpa del PD se si dice così spesso “E allora il PD!”

Notevole paradosso, ne converrete, quello secondo il quale qualsiasi scenario porta sempre verso la conseguenza che volete evitare. Ma il Pd, del resto, è il perfetto capro espiatorio per quest’epoca in cui il delirio è la merce più a buon mercato. Esiste da poco più di dieci anni e nella percezione comune ha governato da sempre. Ragionamento che potrei seguire se pronunciato da un diciottenne che ha soltanto memoria di questo partito durante la sua vita senziente. Lo accetto decisamente meno se pronunciato ad un ultratrentenne. Ha avuto leader odiati talmente tanto ed in maniera unilaterale da aspettarti che ci possa essere stata un amnesia generale per dimenticare i danni fatti dai satrapi che li hanno preceduti durante la prima e la seconda repubblica.

Eppure, eppure, risulta difficile anche per me, adesso, prendermi cura di questo partito. Domenica si celebreranno le ennesime primarie e non ho alcuna voglia di andare a votare, per la prima volta. Non se ne accorgerà nessuno, direte voi, ma nel mio piccolo ho difficoltà ad accettare la piccola restaurazione in atto. Questo desiderio di mettere finalmente a tacere lo spirito che ha animato il partito dagli anni di Veltroni fino alla segreteria Renzi (si può parlare di Renzi nonostante i suoi errori, fin troppo noti?), tirar dentro chiunque abbia cercato di demolire su ogni fronte l’idea stessa del Partito Democratico, non trova in me nessun interesse. E farlo passando dalle primarie, lo strumento così tanto vituperato dalla maggioranza dei militanti, sembra quasi di cattivo gusto.

Mi dispiace, ed anche tanto, ma sembra che interessi a pochi essere passati dai tre milioni dei votanti alle primarie del 2007 al milione che si suppone andrà a votare domenica. Aver dilapidato le energie che si erano raccolte intorno a quell’idea originaria, non importa a nessuno. Tentare di ricostruire un’idea di centro sinistra che superi anche gli egoismi e i sentimenti di rivalsa personale, non importa a nessuno.

Ciò che conta, per una certa classe dirigente, è contarsi e poter dire di essere ancora in piedi, dieci anni dopo, nonostante i Lingotti e i rottamatori.

E scusate, quindi, se faccio fatica ad appassionarmi a tutto questo.

P.s. il titolo è un riferimento al paradosso del Comma 22, quello secondo il quale si enunciavano regole del tipo: “Chiunque sia pazzo può chiedere di essere esonerato dalle missioni di guerra però chi chiede di essere esonerato dalle missioni di guerra non è pazzo”.

Vite che non sono la mia

Nella mia stanza d’hotel al Cairo, con la febbre ancora alta, ho finito di leggere il mio secondo libro di Carrerè, dopo Limonov.

E come dopo quella volta, sento l’esigenza di scriverne. Sono storie vere, di due lutti vissuti da vicino dall’autore. Il primo, a seguito lo tsunami del 2004 in Sri Lanka di una bambina in vacanza con i suoi genitori in quell’isola.

Il secondo, quello della sorella della propria compagna, brillante giudice nella provincia francese. Raccontare del dolore e di chi deve sopravvivere all’assenza con tale lucidità e verità ti scuote dentro, tanto più che la morte è per tutti noi soltanto qualcosa di cui parlare il meno possibile, per non disturbare lo stato di amnesia in cui siamo immersi.

Eman

La vita mi ha reso testimone di queste due disgrazie, una dietro l’altra, e incaricato, o almeno così ho capito, di renderne conto. A me le ha risparmiate, e prego continui a farlo. Mi è capitato di sentir dire che la felicità si apprezza a posteriori. Che pensiamo: non me ne rendevo conto, ma a quel tempo ero felice. Per me non è così. Sono stato a lungo infelice, e molto cosciente di esserlo; oggi amo quello che è il mio destino, e della sua amabilità non ho grande merito, la mia filosofia si riassume nella frase che, la sera dell’incoronazione, avrebbe mormorato Madame Letizia, la madre di Napoleone: “Speriamo che duri”

Scegliere di non sapere tutto.

Avoid 99% of the news. If the news is significant, the information will find you. Don’t believe me? Try reading last year’s newspaper. If you do read news, read old news. Time is like a filter for quality.

via Pandemia

Tenere la testa bassa sul presente, su notizie e polemiche che durano il tempo di una giornata, non ci starà facendo perdere lo sguardo d’insieme?

Molto meglio scegliere di ignorare certi argomenti, certe notizie. E approfondire soltanto l’essenziale, che si perderà così meno facilmente, lasciando che qualcosa sedimenti.

Sulla meritocrazia

«La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la disuguaglianza…Eppure fino a tempi non recenti non abbiamo mai pensato di costruire una società interamente né prevalentemente meritocratica. Esercito, sport, scienza, scuola, erano ambiti tendenzialmente meritocratici, ma altre decisive sfere della vita erano rette da logiche diverse e qualche volta opposte. Nelle chiese, nella famiglia, nella cura, nella società civile, il criterio base non era il merito ma il bisogno, grande parola oggi dimenticata…La novità del nostro capitalismo è l’estensione della meritocrazia a ogni ambito della vita civile, la cui prima e più rilevante conseguenza è la legittimazione etica della disuguaglianza, che da male da combattere sta diventando un valore da difendere e promuovere. I passaggi sono tre: 1) si inizia con il considerare il talento un merito; 2) si continua riducendo i molti meriti delle persone solo a quelli più semplici e utili (chi vede oggi i meriti della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3) infine si remunerano diversamente i talenti-meriti amplificando le distanze tra le persone, dimenticando radicalmente il ruolo decisivo che il caso e la Provvidenza esercitano sui nostri talenti…I meriti e i talenti non sono merito nostro, se non in minima parte, una parte troppo infima per farne il muro maestro di una civiltà. Ecco perché un importante effetto collaterale di una cultura che interpreta i talenti come merito e non come dono è una drammatica carestia di gratitudine. Non capiamo allora l’aumento delle disuguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio l’avanzare indisturbato della teologia meritocratica. Come non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più visti come demeritevoli e non come sventurati. Se infatti il talento è merito, l’equivalenza demerito-colpa è immediata. E se i poveri sono colpevoli io non sento nessun dovere di aiuto».

Via Francesco Maggio

La meritocrazia sarà forse la religione del nostro tempo, ma di sicuro non è stata la religione a cui si è votata il nostro paese. Ad un certo punto é diventata centrale nella narrazione di qualche politico riformista, ma é stata puntualmente disatteso ogni tentativo di introdurre principi meritocratici nei luoghi di lavoro e nella politica stessa.

Eppure in questo periodo, in cui si cercano motivazioni al dilagare del populismo, anche questa é salita sul banco degli imputati.

La tesi: chi ha raggiunto qualche obiettivo senza contare su aiuti di sorta, senza fare parte di consorterie di potere, si sente automaticamente assolto, migliore degli altri. Può permettersi di guardare dall’alto chi é in difficoltà, trovando una giustificazione alle disuguaglianza, perché chi non ha, probabilmente non ha fatto abbastanza per meritarsi di meglio.

Farne una delle cause della situazione attuale mi pare avventato, ma é pur vero che da qui occorre partire per capire cosa non abbiamo sbagliato.

Abbiamo sbagliato a banalizzare, a prendere in giro chi non capiva, a ridicolizzare le voci che venivano fuori dalle chiacchere dei bar reali e virtuali.

A che serviva tutto questo, se non a farci sentire migliori?
In fondo avevamo lavori non all’altezza delle nostre aspettative, vite disordinate a quasi quarant’anni, ma potevamo comunque prendere in giro chi non capiva quello che a noi sembrava chiarissimo.

Sai che soddisfazione.

Storia di un fallimento

C’è stato un tempo in cui ho pensato che far parte di un partito politico potesse essere una buona occasione per mettersi a disposizione della propria comunità.

Trasferito nella città in cui adesso vivo mi sono inserito nel Partito Democratico, del quale al tempo condividevo lo spirito e l’anelito di novità che veniva dalla spinta del Lingotto di Veltroni e da alcuni giovani di cui condividevo le idee. È stata un’esperienza importante su cui tornerò perché da essa ho imparato molto, nel bene come nel male, sulla politica e sugli uomini che in essa si muovono.

Ad ogni modo, da qualche anno avevo maturato l’idea di abbandonare quest’esperienza. Ho deciso di candidarmi alle ultime elezioni comunali, ma il risultato è stato la conferma che la scelta migliore fosse lasciare.

Riporto qui la lettera che avrei voluto consegnare al coordinamento, ma che concretamente hanno letto solo in pochi.

Scusate se vi disturbo, tra i vostri impegni, ma vorrei comunicarvi la decisione di abbandonare questo coordinamento.
E’ una scelta che deriva da molte ragioni. Quando ho deciso di inserirmi all’interno del partito, ero spinto da una grande curiosità per un mondo che non conoscevo e che mi affascinava. E dalla voglia di mettermi al servizio degli altri ad un livello che ritenevo superiore a quello del semplice volontariato.

A distanza di cinque anni, ho imparato molto. Ma soprattutto ho imparato che questo mondo non fa per me. Se guardo a quello che sono stato in grado di costruire, aldilà delle relazioni personali, vedo un foglio bianco.
Mi sono reso conto di non essere stato in grado di incidere nel cambiare tutto quello che non mi piaceva nelle dinamiche interne, finendone piuttosto, talvolta, sopraffatto. Pensavo che la vita del partito pretendesse un’attivismo che non ho trovato, e delle chiamate all’azione che non fossero semplicemente una chiamata ad una forza lavoro acritica.
Mi manca un progetto, un programma costruito insieme teso al raggiungimento di un obiettivo. Vedo un obiettivo, piuttosto, perseguito secondo dinamiche che stento a comprendere pienamente.
Incide sicuramente una grande resistenza al cambiamento nelle dinamiche di gestione del partito, coerente con le dinamiche di oggi. L’ho provato più volte, in ciò che mi sono permesso di proporre.
I miei limiti hanno inciso, certo. Limiti legati al tempo che posso dedicare a questo coordinamento per poter incidere nel modo che ritengo sia opportuno. Limiti anche caratteriali, probabilmente. Probabilmente serve anche un carattere diverso dal mio. Sono troppo affezionato al ragionare con la mia testa per poter cavalcare acriticamente il leader di turno o per sposare una singola ragione, o per mettere a tacere i miei pensieri del momento.
Anche alla luce delle preferenze raggiunte alle elezioni, credo comunque di non poter mai sperimentare un ruolo nel consiglio comunale. Esperienza che avrei voluto, per imparare le dinamiche della politica e dell’amministrazione di una città. Ma sono alieno, nuovo per Brugherio, per poter pensare di avere una rete di relazioni in grado di votarmi. Non sono nato qui, non ho frequentato le scuole né le associazioni della città fino ad adesso, se non proprio questo partito.
Porto con me molto, in ogni caso. Relazioni personali, e comprensione dei miei limiti, in primo luogo. Però forse adesso è meglio che torni ad occuparmi di qualcos’altro. Qualcosa in cui possa dire la mia e lasciare un segno. In cui possa far ripartire le mie motivazioni. C’è una canzone di Brunori che dice “La verità è che non vuoi cambiare, che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose a cui non credi neanche più”. Io voglio cambiare.
Un abbraccio.

Uno spazio da ritrovare

Sono rimasto spiazzato vedendo che il mio ultimo post su questo blog è di un anno fa.

I pensieri, come per tanti, in questi ultimi anni si sono spostati verso altre piattaforme, che sicuramente garantivano una platea più ampia, sicuramente appetibile, ma che alla lunga hanno manifestato tutti i loro difetti. Quello che poteva essere uno spazio per la discussione è diventato uno spazio per la litigiosità spesso insensata. E per me, che non ho mai avuto l’intenzione di mettere a tacere le mie opinioni e le mie posizioni, è stato  difficile lasciar scorrere il fiume di odio che veniva anche da gente che mi ha conosciuto e che ho frequentato per molto tempo.

Se è successo a me, nel mio piccolissimo angolo di mondo, non oso neanche immaginare quanto possa essere insostenibile per chi ha un ruolo pubblico. Io non ho abbastanza pelo sullo stomaco per sostenere tutto questo, e dopo le elezioni comunali a cui ho deciso di candidarmi, ho deciso che non era più il caso di condividere i miei pensieri. Avevo bisogno di disintossicarmi.

A distanza di sei mesi, penso che sia un peccato smettere di parlare. Molto spesso avrei voluto raccontare, condividere qualcosa che ritengo interessante, ma mi sono letteralmente auto censurato.

Ho perso l’abitudine a scrivere, il tempo si è frammentato e ridotto, ma anche solo per me stesso, tornare su questo blog penso sia utile.

Pochi si accorgeranno di quello che scriverò, che raramente finirà su un social network. Ma quello che voglio non è un palcoscenico dal quale parlare. Non mi interessa. Voglio soltanto uno spazio per fare ordine e per condividere pensieri soltanto con chi esplicitamente vorrà venire su questa pagina.

Un tempo questo funzionava e mi ha permesso di entrare in contatto con persone che stimo, ed era la cosa migliore che internet era riuscita a costruire.

Occhiachiusi

Un tisi na piula cantari dra sira,
chidda chi na vota mi cuntasti.
Era nicu e mi scantava puru da me ummera,
d’un muru biancu cu rarrieri nu sbalancu.
E mi scantava d’ascutari st’accedu cantari
chi mala nova puteva purtari.
Ma dra sira quannu nni salutisti
un sacciu s’an tisi. Na notti, quannu l’estate java finiennu ntisi
 un gran friddu ‘nta l’uossa
e nenti chiu. Pareva una cosa nutili pi cumu mi muveva,
‘iava a memoria, sulu pi viriti ‘natra vota ancora.
I cunta ri storie chi mi cuntavi, sunnu cu mia
Eranu cunta
d’amuri granni, amuri strappato du cori
e quacchi vota arritruvatu. Cunti di terre
abbandunati e d’ommini ri na vota, ca s’infilarunu
rintra i nostri vini e ora un ponnu chi scappari.
E puru si u tiempu passatu nna abbasta mai,
sacciu unni truvariti quannu l’occhia chiuru e
a tia vaiu circannu.