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26 Maggio – Di ritorno dal Passatore

Leggevo qualche giorno fa che correre una maratona danneggia il cervello, almeno per qualche mese.

Forse per questo bisognerebbe evitare di prendere decisioni un po’ folli in quel periodo, come ho fatto quando ho deciso di iscrivermi al Passatore.

Il Passatore è sicuramente la più nota ultramaratona su strada che si tiene in Italia, su un tragitto che parte dal Duomo di Firenze per giungere a Faenza, in un percorso di cento chilometri che attraversa l’Appennino. Il suo nome deriva da una figura mitica del Passator Cortese, un brigante vissuto nel’800, e mitizzato come una sorta di ladro gentiluomo, una sorta di Robin Hood della zona.

Il Passatore ci accoglie al ritiro pettorali

Mi sono lanciato quindi in una sfida che supera di gran lunga quanto finora ho fatto, portandomi in un territorio sconosciuto, del quale non conoscevo contorni e sensazioni.

Se una volta, correre una maratona mi sembrava un qualcosa di assurdo, la preparazione a questa corsa prevedeva 40 km quasi ogni domenica, se non di più. É stato un percorso impegnativo e logorante, anche per chi mi stava intorno, e mi consentiva di trovare questo tempo per gli allenamenti.

Ad ogni modo, una volta presa la decisione di partecipare, non é più tempo per tirarsi indietro. Così eccoci il 24 maggio sul treno che ci porterà a Firenze. Lunga fila per il ritiro pettorali, una pasta fredda per caricarci ulteriormente di carboidrati, ed alle 15 siamo pronti per la partenza sotto la cupola del Brunelleschi.

Erano giovani e forti…

La strada sale fin da subito verso Fiesole, ed il pensiero va a quella trattoria dove un giorno, festeggiando una laurea, mangiai la prima fiorentina degna di questo nome. Ma non è ancora il tempo per le crisi di fame, e la strada è ancora lunga. Le strade e i primi paesi accolgono noi corridori con un’atmosfera da festa di paese, e tutto prosegue più o meno nella normalità fino a Borgo San Lorenzo, quando comincia la lunga salita che porta verso il passo della Colla. Inizialmente corribile, si fa intensa soprattutto negli ultimi dieci kilometri, nei quali comincio a camminare. Prendo l’ultimo gel, sento le caviglie che non si piegano come dovrebbero, i talloni che sbattono a terra più del dovuto, ed ogni volta che tento di correre smetto subito dopo.

A qualche chilometro dalla vetta la nausea mi attanaglia, ma voglio assolutamente raggiungere la vetta. É ancora giorno, e penso che sia già un buon risultato essere lassù con questa luce, almeno da ciò che ricordo dei racconti chi l’ha già vissuta.

Sono alla Colla in 5 ore e 50 minuti e finalmente comincia la discesa, nella quale spero di recuperare un po’ di mobilità. In effetti è ció che succede. Il cielo comincia ad adombrarsi e tra gli alberi del bosco cominciano a vedersi le prime stelle. Oramai qui é solo silenzio, passi di noi corridori, e la valle che si apre intorno a noi.

Ho solo un pensiero, quando arriviamo al sessantesimo chilometro, e voglio togliermelo dalla testa in ogni modo. Mancano ancora quaranta chilometri, cazzo. Cerco di pensare ad altro, ma la mente continua a tornare sempre lì. Mi do obiettivi intermedi, penso a qualsiasi cosa, ma poi sono sempre lì, mancano ancora 35, 34 e poi 30.

Fin quando all’ennesimo ristoro non mi sento chiamare. É Ale, mio fratello, vicino ad un ambulanza. In crisi. Mi fermo con lui. Siamo oltre il settantesimo chilometro. Restiamo fermi per un po’ in un bar. The caldo, vomito e limonata. Cosa fare? Fermarsi o ripartire?

Tenendo inascoltati i consigli di chi è lì con noi, tentiamo di ripartire. Ma non va. Cerco di tenere il ritmo io, che normalmente corro sempre alle sue spalle, ma non riesce ad andare avanti.

Così non ha senso continuare. Raggiungiamo l’ennesimo ristoro, e finisce la nostra gara. Di chilometri ne abbiam percorsi 77. Non me la sento di lasciarlo in queste condizioni.

Avrei potuto forse continuare, ma la verità é che vedere lui fermarsi é stata probabilmente una liberazione anche per me. Come sempre, la competizione fraterna, sarebbe stata uno stimolo per continuare, e se probabilmente non avessi incontrato lui in crisi, non avrei mollato anche io.

Ad ogni modo non ho rimpianti, sono stranamente appagato in ogni caso. Ho misurato ciò di cui sono capace, sono andato oltre a ciò che conoscevo, e ho imparato qualcosa.

Probabilmente non sono pronto per queste distanze, ed in questo momento, così come quando correvo, non comprendo ancora a pieno la bellezza del correre distanze così lunghe.

Forse le ultramaratone non fanno per me, oppure il tarlo di questo parziale fallimento mi scaverá dentro fino a farmi riprovare quest’avventura. 

Le cose che dovrò ricordare, in tal caso, saranno queste:

  • Porta con te sempre una giacca antivento, una maglia termica e dei guanti
  • Bevi tanto, anche più del dovuto, per non ritrovarti con una cistite nel bel mezzo della gara
  • Usa le scarpe più ammortizzanti che hai.
  • Allenati sulle salite. Non ne fai mai abbastanza.

22/05 La soglia dell’attenzione

Sfuggire alla tentazione dello scroll compulsivo e automatico, pessima abitudine di questi anni, richiede sotterfugi e metodi per ingannare la mente che ho cercato più volte in questi anni.

Avere semplicemente accanto o in tasca un telefono e non prenderlo in mano é complicato, per cui negli anni ho cercato di lasciarlo in casa quando non strettamente necessario, o in un’altra stanza.

Una strategia che avevo attuato prevedeva di non leggere più articoli lunghi sul cellulare ma trasferirli sul Kobo, attraverso il comodo add-on tra Firefox e il Kobo stesso.

Nessuna distrazione, il solo testo da leggere senza video o distrazioni di altro tipo, con la lentezza dell’e-ink e la comodità di leggerlo ovunque, erano davvero la soluzione ideale per me.

La notizia arrivata l’altra sera mi ha gettato nello sconforto. Esisterà un nuovo servizio alternativo su Kobo o dovrò studiare un’altra strategia? O dovrò comprare l’ennesimo nuovo dispositivo per poi cercare di disconnettermi dai dispositivi?

Maledizione.

Update 07/07/2025

Grazie al prezioso contributo di Ema ho deciso di passare a Wallabag, utilizzando su Kobo Wallabako.

Qui un efficace guida per l’installazione. Il prossimo passaggio sarà l’installazione Self-hosted.

21/05 Sparigliare

Che poi, tornando su ció che ieri raccontavo, é proprio necessario che di tanto in tanto qualcuno entri nella tua vita e ti faccia vedere una nuova prospettiva.

L’alternativa é annoiarsi dei propri stessi pensieri, essere stanco di sapere dove si andrà a parare, delle proprie passioni e ossessioni.Essere stufo di essere chi si é, della propria personalità.

E quindi sparigliare di tanto in tanto sarebbe necessario, ma diventa sempre più complicato, soprattutto quando occorre dare certezze.

E forse é proprio per questo che, in molti, poi cedono alla fatica della responsabilità, del carico invisibile che il ruolo che si riveste comporta.

Lo trovo,del resto, assolutamente comprensibile.

20/05 Cinguettii

In pausa pranzo ho sentito un gran cinguettio intorno a casa mia.  Ultimamente il canto degli uccelli assorbe la mia attenzione, come mai ha fatto prima. Non penso che quest’anno siano improvvisamente aumentate le nidiate, ma é come sei i miei sensi abbiano sviluppato una sensibilità elevata verso questi suoni.

Attraverso quella meravigliosa app che é BirdNet, una sorta di shazam dei canti degli uccelli, ho scoperto si trattasse di un gruppo di merli, che armonizzava il suo canto in modo diverso, facendomi credere si trattasse di più specie che si erano date appuntamento nel cortile di casa.

Considero tutto questo un dono dell’essere diventato genitore, un genitore che guarda il mondo in modo diverso attraverso le passioni e le curiosità che un figlio sa regalarti.

19/05/2025 Capelli

Oggi per la prima volta ho osservato i primi capelli bianchi. E seppure mi ero lasciato cullare dall’illusione, il mio corpo finora mi aveva nascosto gli effetti del tempo che passa.

E questo è un tentativo di tornare a scrivere, quando ormai l’unica cosa che scrivo, da anni, sono mail lavorative, in cui si gioca il difficile tentativo di tutelare le proprie terga e fare un passo avanti nel progetto che si tenta di seguire.

Ognuno gà le so razòn.

Se mi guardo intorno e mi sembra di essere dentro una di quelle immagini che ricordo su vecchi cruciverba della settimana enigmistica.
Piazze un po’ vuote, tristi, circondate da palazzi di architettura razionalista e nulla più. Se fermassi qui il mio sguardo vedrei davvero poco, nulla in grado di colpire la mia immaginazione.
Non c’è bellezza che ti stupisca quando entri a Latina.
Mi guardo intorno, cerco di capire. Nel tragitto verso il luogo di in cui lavorerò, un’azienda farmaceutica tra le tante che alimentano questo territorio, è solo campagna, coltivata fittamente.
Case coloniche di tanto in tanto, qualcuna rimessa a nuovo, qualcuna un po’ in rovina. Su di esse campeggia una sigla che non capisco. ONC. Passo oltre.
Entro in libreria, compro un libro. Voglio capire. Penso che è attraverso le storie che ci vengono raccontate, che viviamo, che leggiamo, che i luoghi prendono vita.
Nessuno del resto potrà capire la bellezza che tutti noi associamo a luoghi che per altri sono insignificanti.
E’ attraverso un libro che capisco il senso di questo territorio e la sua storia. Capisco che quella sigla non è altro che l’Opera Nazionale Combattente, l’ente
nato dopo la prima guerra mondiale e che si prese l’onere , durante il fascismo,di gestire la bonifica di questo territorio.
Case che furono le prime abitate da grandi famiglie provenienti dal Veneto e dalla Romagna, che lasciarono la fame delle loro terre d’origine
per il sogno di qualcosa che davvero non esisteva ancora. Di una promessa di prosperità, che costruirono con le proprie mani. Incontrarono per prima cosa zanzare, malaria e fango. Poi costruirono
n territorio dove prima non esisteva altro che un enorme acquitrino.
Guardando da qui vedo l’ampiezza di questa fascia di terra e capisco l’imponenza di un’opera di questo tipo. In fondo vedo le colline dei monti Lepini, con Sermoneta e Sezze. Il mare dista una ventina di chilometri.
Drenare, incanalare, sfangare. Costruire, modificare il mondo, come fanno gli uomini, piegando la natura, a volte infida, al potere dell’intelletto umano e alla forza delle sue braccia.
Per un istante riesco a comprendere perchè qui la nostalgia per il ventennio sia ancora così forte, ne percepisco il senso e forse lo giustifico.
D’altronde, ognuno “gà le so razòn” come direbbe uno di quei coloni veneti di un secolo fa.

Canale Mussolini. Parte Uno. Antonio Pennacchi. Mondadori, 2010

La mia Monza Resegone

La Monza Resegone non è una gara come le altre. Il fascino di una storia che prosegue dal 1924 a fasi alterne ne ha costruito l’epica, che pervade tutti gli oltre quaranta chilometri di percorso. Te ne accorgi dalla partecipazione della gente lungo il territorio, che tra ali di folla di applaude, dai bimbi che ti chiedono il cinque ai margini della strada, dai vecchietti seduti fuori dalle proprie case, su sedie tirate fuori per l’occasione, come per ogni sacra festa paesana che si rispetti.
Ma é magica perché vive di confronto, di attesa e condivisione di un’obiettivo comune. Dicono che la corsa sia uno sport solitario, una sfida contro se stessi. Ma qui si corre in tre. Occorre conoscere chi ti sta accanto. Ed in questo siamo stati perfetti. Mauro é stato la sicurezza di chi non avrebbe mollato mai, dato il ritmo giusto, e mollato a me il giusto sganazzone durante i miei allunghi in pianura. Maura la certezza di un trattore che sai che sarebbe arrivata alla fine senza alcun cedimento. Non credo ce l’avrei fatta senza di loro.
Abbiamo corso i primi trenta chilometri fino a Calolziocorte al ritmo che ci eravamo proposti, un comodo 5:30 che ci avrebbe messo al riparo da carichi eccessivi. E poi é cominciata la vera Monza Resegone. La salita verso Erve, che già di giorno mette i brividi, con il suo strapiombo su quell’orrido, nella notte profonda e silenziosa rotta solo dai passi dei corridori, si é dimostrata già dura per me, che ho cominciato ad avere i primi cedimenti. Raggiunto il paese e superato, mancavano solo tre chilometri per raggiungere la cima di Capanna Monza, a 1170 metri, circa 600 metri di dislivello ancora da coprire. Il tratto più duro, una pietraia che puoi superare aggrappandoti ad ogni roccia e scalandola con le ultime forze rimaste, sperando nella spinta da dietro di qualche compagno. Li il freddo del bosco ha creato non pochi problemi al mio fisico ormai segnato, unendosi di tanto in tanto a qualche crampo. Abbiamo coperto quei pochi chilometri in oltre un’ora. E poi, infine, eccola lì Capanna Monza, nascosta ad ogni sguardo, il nostro traguardo. Gli abbracci e le lacrime, la stanchezza che trova ristoro.

Qualche minuto in infermeria per controllare la mia pressione scesa a minimi storici, e poi di nuovo giù a valle, dopo aver incontrato altri compagni d’avventura. Le luci dell’alba cominciano a spuntare tra le montagne e le chiacchere a raccontare le esperienze reciproche vissute quella notte. Un piadina, una birra ed é già ora di tornare a casa. In fondo sono solo le sette del mattino.


Che storia.
Credits @mabra.foto

Su Giuliana Saladino

Tra la polvere di chi ci ha preceduto si raccontano storie che continuano a parlare anche se quel tempo sembra oramai lontano.

Un tempo nel quale la Sicilia era soprattutto terra di contadini, semianalfabeti, vessati dalle leggi del latifondo che lasciavano il minimo per sopravvivere a famiglie che si spezzavano la schiena per giornate intere sulla zappa e sull’aratro. In cui le regole erano fissate, in cui tutto appariva immutabile, come la rassegnazione di quegli uomini e quelle donne.

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il mondo davvero appariva ricostruirsi secondo un ordine nuovo. Fu in quel periodo che nacque infatti forse l’unica vera rivolta che questa terra ha conosciuto, almeno in termini di coinvolgimento delle masse. La richiesta di una riforma agraria, sostenuta dal partito comunista, e la nascita del movimento contadino siciliano costituiscono un’epica di esaltazione e sconfitta, che mi pare sia sconosciuta ai più. Portella della Ginestra o l’omicidio di Placido Rizzotto costituiscono forse gli eventi che più sono rimasti nella nostra memoria. Ma in quella battaglia morirono negli anni oltre 50 sindacalisti, e si presentò per la prima volta quella connivenza tra potere e mafia che rappresentò la base per quanto sarebbe avvenuto nei decenni successivi.

Nelle trame di questa storia, che da anni cerco di comprendere, ho scoperto una donna. Giuliana Saladino. Militante comunista durante quegli anni, giornalista dell’Ora di Palermo fino agli anni Novanta, e poi, negli ultimi anni della sua vita anche assessore alla cultura del comune di Palermo durante il periodo della “Primavera” e della prima giunta Orlando. È attraverso però i suoi unici libri, scoperti con assoluta casualità, che sono venuto in contatto con la sua scrittura e la sua personalità. Entrambi i libri, pur prendendo spunto da eventi apparentemente lontani, si riallacciano continuamente alla storia di quegli anni di lotte e alle successive delusioni. Nel primo, Romanzo Civile, si parte dalle riflessioni per la malattia e successiva morte di un caro amico, Lillo Roxas, per ripercorrere gli anni del girare furioso per le campagne per coinvolgere contadini in quella battaglia così cruciale. Ma è un libro ampio, che parla di morte e di vita, di passione e delusione, e che in un certo senso racconta molto della maturità di tutti noi, nella quale all’entusiasmo delle passioni collettive, di speranze di capovolgimento della realtà, si sovrappongono delusioni che portano ad un rifugio privato, in cui semmai trovare una strada personale verso ciò che una volta muoveva corpi interi.

In Terra di Rapina lo spunto nasce da una rapina finita male nel Nord Italia, ad opera di un giovane siciliano e della sua banda, che finisce per essere linciato dalla folla durante il suo arresto. Il pretesto è un modo per tornare indietro alle cause che hanno portato quel ragazzo, da bracciante, figlio di generazioni di contadini, a diventare un criminale. Dalla fame degli anni dell’infanzia, alle speranze che nascevano in quegli anni intorno ai movimenti contadini e alle solfare, che sfiorano soltanto marginalmente il ragazzo, ma che raccontano il bisogno di un futuro diverso da immaginare, e che la mancanza di soluzioni alternative conduce verso il crimine. Ma dalla storia personale, la vera rapina che viene raccontata è proprio quella dei sogni di una generazione che attraverso le lotte contadine pensava di poter ottenere tutto ciò che finora gli era stato negato, persino l’ingresso al “Jolly Hotel”, come dice Giuseppe di Maria, il rapinatore protagonista del libro. Infatti, quelle lotte finiscono in una delusione, in una legge truffa, attraverso la quale la Democrazia Cristiana, insieme ai grandi latifondisti e ai mafiosi, ridistribuisce le terre aggirando la legge Gullo e distribuendo soltanto pietraie e terreni inutilizzabili ai contadini, che soltanto per un paio di anni si illudono di essere diventati proprietari terrieri. Dopo i quali la fame torna come prima, insieme ai debiti contratti per l’acquisto di quelle terre, e nasce l’esigenza, l’obbligo, di scappare dalla Sicilia. Da lì, le grandi emigrazioni degli anni 50/60 verso il Belgio, la Germania, il Nord Italia, e altre storie di povertà ed umiliazioni, mentre la Sicilia, la vera terra di rapina, perde quasi ogni speranza.

Due libri sinceri e crudeli che fanno fatica a non lavorarmi sottopelle. Giuliana Saladino, senza dubbio, fu una scrittrice e una giornalista d’inchiesta incredibile, forse oramai poco conosciuta, ma soprattutto una donna molto importante per la storia della Sicilia e di Palermo.

Per chi volesse poi saperne di più sulla sua vita esiste un documentario, che ne fa un ritratto completo raccontandola dagli anni della giovinezza fino agli ultimi suoi giorni.  https://vimeo.com/77504466

Pensieri sparsi per gli uomini che sarete/1

Ovunque mi volti ho l’impressione di sentire urlare guardami, ci sono anch’io qui, e sono unico. Ogni manifestazione della contemporaneità non fa che evidenziarmi questa necessità. I social network si alimentano di questo. Si cibano della solitudine e della finitezza del nostro vivere con il quale non riusciamo a fare i conti.

Ho letto un libro di recente, parlava di alberi, di vegetazione. Un piccolo manifesto (La nazione delle piante, Stefano Mancuso) che enunciava la superiorità degli alberi rispetto a noi umani, che invece ci riteniamo al vertice di quella piramide alimentare che impariamo a scuola. Ribaltava questa visione umano centrica della vita della terra, in cui ciò che conta sembrerebbe soltanto la legge della giungla, quella del più forte, in cui ad emergere è uno a dispetto dei tanti.

Le piante però ci sono sempre state, molto prima di tutti noi. E resteranno, probabilmente, anche quando saremo riusciti a liberare la terra della nostra presenza.

A Chernobyl, un luogo che in questi giorni è tornato di attualità, le piante e la natura sono tornati a frequentare e ad impossessarsi di quei luoghi già da qualche anno. Penso a tanti luoghi desolati e abbandonati in cui arbusti hanno preso a bucare tetti, muschi si sono impossessati di pareti e cespugli sono spuntati nel bel mezzo di un salotto. Resistono e si adattano. Le caratteristiche che li rendono tali sono molte, ma ciò che più mi ha interessato, da profano, è la loro capacità di vivere come un’entità unica, che si muove all’unisono, il cui unico scopo è la sopravvivenza.

È questo che esattamente manca all’uomo? Me lo sono chiesto, più volte, in questi giorni. Siamo esseri egoisti ed affamati di qualcosa di intangibile. Ci caratterizzano il senso di rivalsa, il bisogno di dimostrare a noi stessi e agli altri il nostro valore. La necessità di emergere dalla folla e dimostrare, come dicevo all’inizio, la nostra unicità. Qualcosa poi di obiettivamente impossibile da raggiungere. Per quanto potremmo mai impegnarci troveremo sempre qualcuno più in gamba, più intelligente, più scaltro di noi. Ma anche lui finito e perso tra un milione di altrettanti come lui. Eppure, questa è la motrice che muove il mondo da sempre. Queste caratteristiche sono quelle che ci conducono alle meraviglie che siamo stati in grado di creare e comprendere, dalla raffinatezza di certe formule matematiche, alle applicazioni tecnologiche incomprensibili anche sono per un uomo vissuto soltanto qualche secolo addietro, alle scienze sociali che ci consentono di vivere in società civili, alle scienze mediche che consentono nel giro di un anno di trovare il vaccino ad un virus.  Senza quelle caratteristiche che possono apparire così effimere, l’umanità avrebbe potuto mai dominare la complessità che ha costruito e che regge questo strano formicaio da cui è circondato? Io mi dico di no. E ho mille domande aperte su quale caratteristica evolutiva ci ha condotti a sviluppare quelle caratteristiche. Domande a cui non so se avrò una risposta che appaghi la mia curiosità. Ma ho capito, che benché ci troviamo ad inseguire obiettivi così futili, in ognuno dei campi in cui operiamo, il senso per il quale muoviamo le nostre vite va ben aldilà di quello che vediamo. Siamo ottimi ingegneri, architetti, medici, insegnanti, bibliotecari, scrittori, musicisti, parrucchieri e muratori perché siamo tenuti a spendere il massimo delle nostre potenzialità, perché ogni ruolo esiste perché si tiene insieme ad ogni altro, perché possiamo esistere e sopravvivere soltanto attraverso questa società di mutuo soccorso in cui ognuno ha bisogno dell’altro. Come se il vero senso della vita fosse soltanto la sopravvivenza, così come per ogni altro essere vivente. E che il suo motore fosse l’ambizione.

Dinnanzi a questa affermazione, ci troviamo, probabilmente mai come prima, ad un punto di rottura. Esattamente nella condizione di comprendere se la nostra ambizione si rivelerà il motore per la sopravvivenza della nostra specie o forse quello per la nostra più veloce estinzione. Siamo in bilico. Oggi più che mai. Tempi nei quali è d’obbligo capaci di coltivare grandi ambizioni, ma allo stesso tempo in cui essere capaci di prendersi poco sul serio, consapevoli di essere infinitamente piccoli, e parti di un’ecosistema che si tiene soltanto tenendosi se ognuno fa del proprio meglio.

Insieme

La gente si dispone sulla propria poltrona, distanziate di appena un posto dal proprio vicino. Noi subito dopo essersi spente le luci, ci stringiamo accanto. Lo spettacolo è essenziale. Una chitarra e uno splendido attore raccontano una storia di bombardamenti, fughe e picciriddi in un mondo di cui capiscono poco il senso, e cercano un modo per esserne parte. Non penso a nulla, ascolto. Poi, un pensiero mi si pone davanti. Un’ansia, che non mi appartiene. Siamo al chiuso. Dopo tutto questo tempo, da poco più di un’ora. Abbiamo mascherine, siamo almeno in parte vaccinati. In qualche misura, siamo in una condizione che ci mette a rischio.

Ma siamo qui, tutti noi, come dei reduci, sopravvissuti a mesi di streaming e solitudine, per celebrare un rito collettivo di riappropriazione. Abbiamo bisogno che i nostri occhi cerchino bellezza e grazia, dopo questi mesi. Non so se sono pronto, ma ne ho bisogno.