Ovunque mi volti ho l’impressione di sentire urlare guardami, ci sono anch’io qui, e sono unico. Ogni manifestazione della contemporaneità non fa che evidenziarmi questa necessità. I social network si alimentano di questo. Si cibano della solitudine e della finitezza del nostro vivere con il quale non riusciamo a fare i conti.
Ho letto un libro di recente, parlava di alberi, di vegetazione. Un piccolo manifesto (La nazione delle piante, Stefano Mancuso) che enunciava la superiorità degli alberi rispetto a noi umani, che invece ci riteniamo al vertice di quella piramide alimentare che impariamo a scuola. Ribaltava questa visione umano centrica della vita della terra, in cui ciò che conta sembrerebbe soltanto la legge della giungla, quella del più forte, in cui ad emergere è uno a dispetto dei tanti.
Le piante però ci sono sempre state, molto prima di tutti noi. E resteranno, probabilmente, anche quando saremo riusciti a liberare la terra della nostra presenza.
A Chernobyl, un luogo che in questi giorni è tornato di attualità, le piante e la natura sono tornati a frequentare e ad impossessarsi di quei luoghi già da qualche anno. Penso a tanti luoghi desolati e abbandonati in cui arbusti hanno preso a bucare tetti, muschi si sono impossessati di pareti e cespugli sono spuntati nel bel mezzo di un salotto. Resistono e si adattano. Le caratteristiche che li rendono tali sono molte, ma ciò che più mi ha interessato, da profano, è la loro capacità di vivere come un’entità unica, che si muove all’unisono, il cui unico scopo è la sopravvivenza.
È questo che esattamente manca all’uomo? Me lo sono chiesto, più volte, in questi giorni. Siamo esseri egoisti ed affamati di qualcosa di intangibile. Ci caratterizzano il senso di rivalsa, il bisogno di dimostrare a noi stessi e agli altri il nostro valore. La necessità di emergere dalla folla e dimostrare, come dicevo all’inizio, la nostra unicità. Qualcosa poi di obiettivamente impossibile da raggiungere. Per quanto potremmo mai impegnarci troveremo sempre qualcuno più in gamba, più intelligente, più scaltro di noi. Ma anche lui finito e perso tra un milione di altrettanti come lui. Eppure, questa è la motrice che muove il mondo da sempre. Queste caratteristiche sono quelle che ci conducono alle meraviglie che siamo stati in grado di creare e comprendere, dalla raffinatezza di certe formule matematiche, alle applicazioni tecnologiche incomprensibili anche sono per un uomo vissuto soltanto qualche secolo addietro, alle scienze sociali che ci consentono di vivere in società civili, alle scienze mediche che consentono nel giro di un anno di trovare il vaccino ad un virus. Senza quelle caratteristiche che possono apparire così effimere, l’umanità avrebbe potuto mai dominare la complessità che ha costruito e che regge questo strano formicaio da cui è circondato? Io mi dico di no. E ho mille domande aperte su quale caratteristica evolutiva ci ha condotti a sviluppare quelle caratteristiche. Domande a cui non so se avrò una risposta che appaghi la mia curiosità. Ma ho capito, che benché ci troviamo ad inseguire obiettivi così futili, in ognuno dei campi in cui operiamo, il senso per il quale muoviamo le nostre vite va ben aldilà di quello che vediamo. Siamo ottimi ingegneri, architetti, medici, insegnanti, bibliotecari, scrittori, musicisti, parrucchieri e muratori perché siamo tenuti a spendere il massimo delle nostre potenzialità, perché ogni ruolo esiste perché si tiene insieme ad ogni altro, perché possiamo esistere e sopravvivere soltanto attraverso questa società di mutuo soccorso in cui ognuno ha bisogno dell’altro. Come se il vero senso della vita fosse soltanto la sopravvivenza, così come per ogni altro essere vivente. E che il suo motore fosse l’ambizione.
Dinnanzi a questa affermazione, ci troviamo, probabilmente mai come prima, ad un punto di rottura. Esattamente nella condizione di comprendere se la nostra ambizione si rivelerà il motore per la sopravvivenza della nostra specie o forse quello per la nostra più veloce estinzione. Siamo in bilico. Oggi più che mai. Tempi nei quali è d’obbligo capaci di coltivare grandi ambizioni, ma allo stesso tempo in cui essere capaci di prendersi poco sul serio, consapevoli di essere infinitamente piccoli, e parti di un’ecosistema che si tiene soltanto tenendosi se ognuno fa del proprio meglio.