Greetings from Dubai/3. Per il riposo c’è sempre tempo

Trovare del tempo in queste giornate, anche solo per scrivere, è una faccenda complicata, quando poi passo dalla mia camera giusto il tempo di una doccia e pochi minuti prima di chiudere gli occhi.

Sono giornate così,e ve le racconto, vagamente.

Ogni mattina la sveglia suona presto, un pulmino raccoglie tutti noi fuori dall’hotel intorno alle sette e ci porta verso l’ingresso del Drydocks. Le facce a quell’ora sono tutte piuttosto assonnate e ci si scambia così veloci battute, ma il viaggio dura così poco da rendere il silenzio un gradevole intermezzo. Fuori è già caldo, per cui dall’ingresso del porto ci si muove tutti in ordine piuttosto sparso fino a raggiungere gli uffici, e l’unico caffè ragionevole della giornata.

Tuta bianca indossata, a cavallo delle nostre bici raggiungiamo la banchina dove è accostata la nave.

Quattro rampe di scale prima di arrivare sul ponte, dove già i primi indiani sono intenti nel loro lavoro, mentre qualche altro ne approfitta, appoggiato ad un angolo, per dormire ancora un attimo.

Non sono stato fortunato questa volta, e ci penso ogni mattina, quando il resto del gruppo si dirige verso una comoda, e condizionata, sala di controllo ed io nella direzione opposta, vado nella mia postazione all’aperto. Sistemo le mie bottiglie d’acqua al fresco, accendo quel ventilatore sgarrubbato che almeno mi hanno fornito e il notebook. Sono il primo ad arrivare, solitamente. Poi mi raggiunge David, quello che dovrebbe essere il supervisore di questa parte d’impianto, inglese, sessantasettenne, trapiantato in Venezuela, ingombrante nella stazza e nei suoi aneddoti che mescolano le cene a base di bacon e salsicce, della sera precedente, con quelle di una vita spesa in giro per il mondo. Poi è la volta del gruppo dei quattro filippini, il mio braccio su e giù per le scale a controllare e testare tutto ciò che non va. Stanno insieme praticamente tutto il giorno, ed alla sera la loro stanza in albergo è la stessa, mi hanno raccontato. Vivono per sei mesi così, mentre le loro famiglie stanno a Manila o giù di lì. Ma sono lì sorridenti, e mi mettono allegria per l’intero giorno, soprattutto quando alla fine di un test particolarmente difficile improvvisano una danza davanti al quadro elettrico.

Poi, li vengono in tanti a dare un occhio, il croato, il cinese, il francese e l’americano e poi chissà chi altro, ed ancora io mi stupisco di quanto possa riuscire a comprendere con il mio inglese sgangherato tutti gli accenti possibili in cui è possibile parlare la stessa lingua. Tra i quali, naturalmente il più incomprensibile, è proprio quello degli inglesi.

Dodici ore passano poi velocemente in questo modo, contando poi delle lunghe pause che tutti si concedono, e come potrei pure biasimarli.

Così quando alle sette lascio la nave ed il cantiere si è quasi svuotato, arrivo nello spogliatoio, e tolgo la tuta madida  di sudore, provo un piacere del tutto mio nel scolarmi almeno due lattine di quei succhi di frutta, che così buoni solo qui, ed un caffè. Quello che basta per non sentire più la fatica, raggiungere casa, fare una doccia, ed essere pronti per la sera in cui c’è una città da scoprire.

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p.s. la foto l’ho scattata venerdi, il nostro giorno libero, in giro per il deserto arabico, a neanche quaranta chilometri dalla città.

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